Dal 2014 Netflix vanta in vetrina un prodotto apprezzato dalla critica e letteralmente amato dal pubblico: Bojack Horseman, serie animata statunitense creata nel 2014 da Raphael Bob-Waksberg e disegnata dalla fumettista Lisa Hanawalt. Le prime tre stagione hanno conquistato il pubblico italiano che ha accolto volentieri la quarta, e ora attende la successiva. 14 settembre 2018 è la data annunciata dallo stesso profilo twitter del cinico cavallo antropomorfo, attraverso un siparietto organizzato superbamente – come al solito – dal team di Netflix, generando la enorme quanto scontata reazione dei fan.
Per i pochi che non sanno di cosa si sta parlando, Bojack Horseman è una serie tv ambientata in una Hollywood contemporanea abitata in simbiosi da esseri umani – tra cui alcuni personaggi reali, come Daniel Radcliffe, Paul McCartney o Zach Braff – e animali antropomorfi, tra cui appunto Bojack, attore ormai quasi dimenticato ma un tempo famoso per il suo ruolo nella fittizia sit-com Horsin’ around, che nell’universo della serie lo affermò come attore.
Bojack ha a che fare con diverse tipologie umane e con figure topiche dell’ambiente hollywoodiano, dipingendo la trama di amori non corrisposti o calpestati troppo in fretta, delusioni, un bisogno collettivo e disperato di attenzione, occasioni perse e decomponimento inarrestabile di qualsiasi tipo di stabilità emotiva. Tutto è però accompagnato e ammortizzato da un tipo di comicità sottile, a volte forzato, ma efficace in quanto regala un andamento dinamico ad ogni singolo episodio, evitando situazioni drammatiche troppo grevi e umorismo blando, che alla lunga – come ci hanno insegnato altre sitcom a stelle e strisce – non fa altro che infastidire e annoiare lo spettatore a morte.
L’alchimia armoniosa di commedia e dramma ha reso la serie una delle più amate di queste anni, aggirando gli ostacoli che avrebbero potuto farla precipitare nell’oblio a cui sono destinati la maggior parte dei prodotti comici, secondo la devastante legge meccanica del consumo.
Chi guarda Bojack tocca con mano la depressione, la disillusione e il friabile equilibrio che un uomo ha con il proprio corpo, tanto osannato prima e poi dimenticato, e con la propria personalità. La focalizzazione è però metacinematografica: ci si affeziona prima a Bojack Horseman di horsin’ around, come se fossimo stati tutti dei ragazzini antropomorfi negli anni ’90 cresciuti con le avventure di Ethan, Sabrina, Goober, Olivia e Il Cavallo; le contingenze della baluginante vita di una stella del cinema, particolarmente quando questa è disoccupata, rendono emergenti e palesi i vizi e l’inettitudine che il successo ha innestato nel corpo dell’attore, che si scontra con la sua incapacità di seguire sinuosamente l’amore che tanto riuscirebbe a salvarlo dal decadimento e con un incmbente problema di alcolismo. Bojack infatti è un inetto, che non riesce a coltivare nessun valore o seguire qualsiasi rapporto costruttivo, le cui uniche capacità sono quelle di deludere chiunque gli doni fiducia.
Ed è proprio l’inettitudine del personaggio principale che carica la serie di una componente empatica rara, preziosa, riuscita, ma al sincronicamente dannosa. Bojack è un elogio della depressione, condizione entro la quale si concretizzano movimenti ipotetici, ogni cosa è in funzione di questa e l’atmosfera la cerca per realizzarsi drammaticamente. Si manifesta, però, come un sentimento elitario, come se fosse la malinconia stessa a decidere chi o cosa debba provare empatia nei suoi riguardi, e con magia mercantile della produzione riesce a raggiungere le masse e – in questo sta la magia – rendere consapevole di una sensibilità straordinaria, seppure artificiale, ogni singolo spettatore. A rompere l’incantesimo, ipotizzo, potrebbe essere proprio la rarefattezza di questo sentimento sfumato, indefinito, lontano sulle colline americane, che prostra il petto titanico sulla piattezza della civiltà dei consumi che trova sempre più fertile il suolo natio. È una depressione che lo spettatore non conoscerà mai, ed è romanzata; non c’è niente di più pericoloso di una malattia dilaniante travestita da moto perpetuo dell’anima verso la sensibilità, che nonstante prema sullo schermo del viso cinico rotto dall’alcol, non giustifica il tremendo significato della sua origine.