Alla metà del Seicento, Napoli era una grande e popolosa città. All’origine della sua straordinaria crescita vi era certamente un aumento della natalità, ma fu soprattutto l’immigrazione dalle campagne circostanti a decretare la maggiorazione della popolazione urbana. Vi erano coinvolti tutti i ceti sociali, a partire dai nobili (principi, duchi, marchesi, conti), i quali sentivano quasi l’obbligo di vivere in città essendo la loro condizione imperniata sul concetto di “visibilità”; in più dovevano partecipare alla vita di corte, se non si voleva essere esclusi da quel mondo prestigioso. Si andava delineando, in tal modo, una società che concepiva l’apparire come presupposto fondamentale per l’integrazione, piuttosto che l’essere.Vi era poi il cosiddetto “ceto civile”, una fascia consistente costituita da funzionari della pubblica amministrazione e di professionisti, quasi tutti legati al mondo giuridico. La loro attività era legata, per la sua stessa natura, alla metropoli. Va considerato che la pubblica amministrazione era anch’essa in crescita, visto che la monarchia spagnola tendeva ad ampliare le funzioni di organizzazione e di centralizzazione di una moderna struttura statale. Dunque, l’aspirazione di questi ceti era di avere una rappresentanza pari al loro peso sociale.Ancora maggiormente sospinti verso la città erano naturalmente i ceti popolari. La città, dove la vita era preferibile, venne letteralmente invasa dalla loro immigrazione. La struttura urbana lo rifletteva: si contavano già a metà del Seicento palazzi di sette piani, mentre molti erano costretti ad abitare in spazi ristrettissimi, i “bassi” e le baracche, raccolti intorno ai luoghi dove maggiormente si svolgeva la vita economica, il mercato, le attività artigianali e manifatturiere. La vita cittadina, tuttavia, assunse un aspetto che la avvicinava al teatro, una caratteristica che ancora oggi contraddistingue il popolo napoletano. Naturalmente, forte era la tensione sociale, poichè grandi erano le diseguaglianze tra i diversi ceti. Su questo sfondo sociale comparve una figura tipica della storia di Napoli: il “lazzaro”. Le cronache di viaggiatori stranieri, fino all’Ottocento, si soffermavano spesso a descrivere, rappresentare e talvolta giudicare, questa figura popolare che presentava caratteristiche uniche, che non si riscontravano in ceti popolari analoghi nelle altre nazioni.Si suole far coincidere la diffusione del nome, attribuito a una parte di popolazione, con l’anno 1646, ovvero con quel periodo durante il quale il popolo si sollevò in una rivolta antispagnola per contrastare le ormai estese pressioni fiscali che colpirono principalmente la massa dei più poveri. Benedetto Croce, in un saggio che risale al 1895, ritenne che il nome derivasse dallo spagnolo e fosse legato all’antico vocabolo “lacéria” che significava insieme “lebbra” e “miseria”. Già in uso nel linguaggio di conversazione a fine Cinquecento, nel senso di plebeo o pezzente, esso divenne nella metà del Seicento un termine caratteristico, volto a indicare uno specifico strato sociale. Come sostenne Croce: “I lazzari erano, dunque, l’infima classe dei proletari di Napoli, quella classe che i sociologi moderni contrappongono al proletario industriale, del quale infatti forma spesso l’antitesi e talvolta l’avversaria, col nome di “proletario cencioso” (in tedesco Lumpenproletariat, sottoproletariato). A definire il lazzaro napoletano, continua lo storico, “non era una semplice condizione economica, ma un atteggiamento psicologico e una condizione morale che conferivano un carattere spiccato alla plebe napoletana”. Allegro e furbo, ostile al lavoro come fatica, ma incline anche a impegni notevoli purché motivati, sul piano politico era analogamente portato al ribellismo o al servilismo. Un pregiudizio si direbbe, che andò definendo i lazzari come una plebe misera e instabile della società napoletana. Difatti, essi diventano, nella considerazione degli storici, figure sempre meno raccomandabili. Anche il più noto degli autori napoletani di romanzi d’appendice ell’Ottocento, Francesco Mastriani, dedicherà a questo ceto plebeo un romanzo, decretandone la fine: “…Noi portiamo opinione che quei tempi esecrati, in cui l’ignoranza, la superstizione ed il fanatismo rendevano il lazzaro un cieco strumento di sanguinose regie vendette, più non torneranno a funestare le nostre contrade. Il lazzaro è sparito da Napoli colla barbarie e colla ignoranza”. Ma, a differenza di coloro che li disprezzavano, spesso appartenenti ad una cultura “alta”, il popolo si ergeva a loro favore. E così, a metà degli anni ottanta del XX secolo, un cantautore insieme popolare e raffinato come Pino Daniele poté cantare impudicamente, quasi inneggiando una ritrovata identità culturale: “Simme lazzare felice”.
La figura di lazzaro predominante nella società napoletana del tempo fu un personaggio molto particolare, diventato famoso in quanto rivoluzionario a capo dei moti del 1647 che stravolsero la città di Napoli. Si tratta di Tommaso Aniello, meglio conosciuto come Masaniello. Ma questa è un’altra storia.