“Me ne fregava solo della musica, mi interessava solo quello. Ho sempre creduto di avere qualcosa di importante da dire, e l’ho detto. E’ per questo che sono sopravvissuto, perché ancora credo di avere qualcosa da dire. Il mio Dio è il rock’n’roll. E’ un potere oscuro che ti può cambiare la vita”.
Il 27 ottobre del 2013, al Southampton Hospital di Long Island, veniva a mancare, all’età di 71 anni, il maestro Lou Reed. Il termine maestro è decisamente appropriato, in quanto egli, con la sua geniale impronta, ha plasmato un’intera generazione in cerca di un’ispirazione culturale per graffiare il mondo. Persino David Bowie, a lui legato da un rapporto di amicizia e collaborazione, ebbe a riconoscere di esser stato influenzato. Audace innovatore non solo nella scrittura, ma anche nell’immagine (giacca in pelle, jeans e Ray-Ban a goccia scuri) e addirittura nel modo di suonare la chitarra elettrica, il cantautore e musicista ha gettato le basi di quella cultura che si è soliti definire Punk. Egli ha raccontato la sua New York come nessuno aveva osato prima. Partendo dal basso, anzi dal bassofondo della metropoli più importante del pianeta, Lou Reed ha restituito nei suoi brani storie di un’umanità ai margini, scavando nel torbido, tra droga e sesso. Con un linguaggio schietto e crudo, ma pure a tratti ironico, dalle sue rime emergono vissuti molto duri e ambigui che, inevitabilmente, pongono l’ascoltatore dinanzi a un malessere esistenziale. Non è difficile affermare che i testi di Reed siano letteratura, poesia calata nel rock…un connubio perfetto. A ben guardare, per le tematiche affrontate e le realtà descritte, nelle sue canzoni si può intravedere finanche una forma di inchiesta giornalistica, in senso ampio. Romanticismo e realisimo si fondono, invero, nella penna e negli accordi dell’Angelo del male, quell’immagine ossimorica in cui i media dell’epoca vollero inglobarlo.
Sicuramente, non è un caso che il musicista abbia saputo scendere fino all’osso nelle piaghe aperte dal disagio, considerando che lui stesso, fin da giovanissimo, dovette confrontarsi con il dolore e l’incomprensione derivante dai più stupidi preconcetti borghesi e perbenisti. Nato nel 1942, con il nome di Lewis Allan Reed, in una famiglia di origini ebraiche, padre contabile e madre casalinga, a 17 anni, i genitori lo costrinsero a sottoporsi a delle sedute di elettroshock, in quanto turbati dai suoi modi effeminati e dalla sua libertà sessuale, nonché dalla sua passione per quella che veniva considerato la “musica del diavolo”, ovvero, appunto, il rock’n’roll. Ovviamente, quella pratica orrenda e disumana non fece altro che indurre il giovane in uno stato di esaurimento nervoso, tanto da doverlo ricoverare in una clinica psichiatrica. “Kill your sons” è un pezzo che descrive molto bene quel suo periodo tremendo.
Con il passare del tempo, l’artista riuscì a riprendersi e a iscriversi alla Syracuse University, dove studiò giornalismo, cinema e scrittura creativa e dove conobbe il suo mentore, lo scrittore e poeta Delmore Schwartz che lo guidò in molte scoperte letterarie e al quale, nel 1966, dedicò la composizione European Son. Tuttavia, come è noto, Reed cadde nel vortice dell’alcool e delle droghe; probabilmente, proprio a seguito di un’inizione di eroina con una siringa contrasse l’epatite C. La sua vita fatta di esperienze al limite e di eccessi ricorda un po’ quella dei “poeti maledetti” della Francia di fine Ottocento, proprio coloro i quali il cantautore, tra gli altri, amava moltissimo leggere. E come costoro, egli si inserì in un circuito di conoscenze artistiche, in modo da lascarsi travolgere da un perenne flusso di idee, stimoli e creatività. In tal senso, suo grande amico, come sappiamo, fu Andy Wharol che disegnò nel 1967 la famosissima copertina con la banana gialla per l’album di debutto dei Velvet Underground. Questo gruppo (il cui nome fu preso dal titolo di un libro giallo trovato nella spazzatura), fondato a New York a metà anni Sessanta insieme al musicista d’avanguardia John Cale, fu quello di cui Lou Reed fu leader prima di intraprendere una proficua carriera da solista che lo portò a realizzare – solo per citare i più rappresentativi – album storici come Transformer (prodotto da David Bowie), il concept album Berlin, il live Rock N Roll Animal e l’album-provocazione Metal Machine Music.
Certamente, sintetizzare in un solo articolo la vastità dell’espressione artistico-musicale di Lou Reed è alquanto complicato, se non addirittura impossibile. Noi di Senza Linea, pertanto, ci limiteremo ad elencare 10 titoli che, a nostro modo di vedere, rappresentano la summa di ciò che ha rappresentato questo genio. La speranza è che, in questa ricorrenza della sua scomparsa, qualche giovane possa incuriosirsi e lasciarsi suggestionare dalla Musica di un’icona, un archetipo, un mito intramontabile.
1. Street Hassle
2. Perfect Day
3. Walk On The Wild Side
4. Coney Island Baby
5. Dirty Blvd
6. Satellite Of Love
7. Sweet Jane
8. Waves Of Fear
9. Caroline Says II
10. Vicious