Il film di Guy Ritchie – che riformula la sceneggiatura insieme a John August, autore di Tim Burton – può annoverare Will Smith nel ruolo del genio, e ricalca con notevole fedeltà il canovaccio dell’ormai celeberrimo cartone animato Disney del 1992; del quale, premetto, finisce per risultare una riuscita trasposizione in chiave “live-action”, con un supporting-cast di assoluto livello.
Aladdin (Mena Massoud), ragazzino povero in canna, vive di mezzi e mezzucci per sopravvivere nella città di Agrabah. Nel bel mezzo di una sua scorribanda, tesa a concretizzare un piccolo furto, il caso vuole che incontri la principessa Jasmine (Naomi Scott), nell’atto di un’uscita “clandestina” in mezzo al popolo, laddove gli era stato tassativamente vietato di uscire dal palazzo reale: ma la tentazione di conoscere meglio la sua città e la sua gente prevale nella principessa, che inizia a girovagare sotto le mentite spoglie della sua ancella Dalia. Ovviamente, Aladdin se ne innamora. E quando verrà a conoscenza della reale identità della sua bella è già troppo tardi: è cotto senza alcuna possibilità di togliersela dalla testa, tuttavia anche consapevole che la sua condizione di non abbiente non è proprio il massimo per pensare di poter aspirare alla sua mano.
Metti poi la presenza di Jafar (Marwan Kenzari), invido visir, stufo di fare da eterno sparring-partner e la cui bramosia per prendere possesso del trono del sultano travalica ogni ragionevole ambizione. Questi invia Aladdin per compiere il furto di una preziosa lampada magica, capace di rendere praticamente impossibile chi la possieda. Infatti, all’interno della lampada c’è un genio; e, in proposito, Jafar ha già da tempo partorito assai pericoli progetti di predominio: Aladdin, che pure riesce a impossessarsene, decide che non sia il caso di dargliela. E si terrà stretti lampada e genio, anche grazie al prezioso aiuto della scimmietta Abu e al mezzo di trasporto fra i più onirici della storia della letteratura: il famosissimo (e velocissimo) tappeto magico.
Questo remake è farcito di effetti speciali riuscitissimi. Veder volare il tappeto e osservare le molteplici trasformazioni del genio sono miele per gli occhi, e questo è un chiaro punto di forza della pellicola, che riesce a mantenere intatta la dimensione incantata che caratterizza, da secoli, la favola di Aladino, ancor prima dello stesso immenso successo del cartone disneyano.
Alcune scene, particolarmente concitate – quali, ad esempio, l’inseguimento di Aladdin attraverso il mercato di Agrabah – sono riprodotte con assoluta maestria, e questo è da ricondursi sia alla alla quasi nevrotica di Ritchie (nell’accezione positiva del termine) e all’atleticità dell’attore canadese di origini egiziane Mena Massoud, che può giovarsi della flessuosità di un ballerino e l’agilità di un campione di parkour (per chi non lo sapesse, il parkour è una disciplina metropolitana nata in Francia agli inizi degli anni ’90, e consiste nell’eseguire un percorso, superando qualsiasi genere di ostacolo con la maggior efficienza, velocità e semplicità di movimento possibile, adattando il proprio corpo all’ambiente circostante, naturale o urbano, attraverso corsa, salti, equilibrio, scalate, arrampicate, ecc).
Inoltre, un altro giusto ingrediente è Will Smith nel ruolo del genio. L’attore non fa rimpiangere il suo predecessore (Robin Williams), contribuendo direttamente sulla sceneggiatura, suggerendo il modo di parlare e la tempistica comica da attribuire al suo personaggio, oltre che ispirare, anche ai fini dello sviluppo della connessa computer-graphic, gran parte della gamma di movimenti (pirotecnici) di pertinenza dell’incredibile gigante blu. Ci riesce grazie alla sua quasi immutata fisicità da rapper da “Principe di Bel Air” e alla sua innata simpatia. In soldoni, vederlo ridere porta automaticamente a sorridere.
L’Aladdin di Ritchie segue pedissequamente lo sviluppo della trama del cartone animato originale, citandone numerosi sequenze e lasciando intonsi vari elementi iconici; ad esempio, l’ingresso trionfale in Agrabah del principe Alì. O, ancora, la riproposizione visuale di quell’Africa del Nord che pare tratta dal più bello dei nostri sogni, così come liberamente ispirato alla geografia immaginifica di Disneyland.
Forse, ma siamo ai dettagli, un filo discutibile la “voltura” di danze arabe in numeri da “Bollywood”. Un po’ forzata anche la linea narrativa impressa al personaggio di Jasmine (una interprete di origini anglo-indiane che forse poteva essere sostituita da una donna con radici arabe più innervate), come l’aggiunta di una canzone di rivendicazione dei diritti femminili, non contemplata nel cartone originale e, tutto sommato anche fuori contesto, in ragione dello scenario in cui si sviluppa la storia e dell’epoca che la stessa va a richiamare.
Spassoso invece il personaggio della dama di compagnia Dalia (l’iraniana Nasim Pedrad), per cui il cuore del genio inizia a battere all’impazzata, con un bypass romantico-narrativa che ne attenua l’incontenibilità.
Nel complesso, questa versione di Aladdin è spettacolare è del tutto degna del suo correlato cartone animato, amplificando ogni dettaglio legato alla favola grazie alla computer grafica.
Ritmi e coreografie sono appassionanti e si miscelano con sapienza lungo un percorso narrativo articolato intorno a una storia di liberazione da ansie e timori legati alle crisi d’identità tipiche anche del nostro tempo.
Si rinviene anche qualche frecciata para-politica: “Ruba una mela e sei un ladro, ruba un regno e sei uno statista“.
Così come non sono casuali i riferimenti alla Primavera Araba e al diritto delle donne di rivendicare la parità, in un universo, quello arabo, che talvolta ne reprime il giusto desiderio.
Seduti in poltrona, nel ricordare il cartone animato, ci potete scommettere, verranno a galla molti dei vostri ricordi.
E, fra questi, potrete anche ben rammentare se vi siate – o meno!- mai imbattuti nella lampada più brillante che avreste potuto incontrare durante la vostra vita.