Napoletano di origine, classe ’64 ed esponente nobile del reggae italiano, Marcello Coleman è stato, tra le altre cose, la voce degli Almamegretta dal 2009 al 2013. Ma ha anche contribuito al successo di band partenopee come i Bisca. Da qualche anno vive a Bruxelles, in cui continua a sperimentare con nuovi progetti musicali.
Per fortuna però torna spesso in Italia, con performance live che non deludono. L’ho incontrato qualche tempo fa a Scalo 28, un giovane pub a pochi km dai templi di Paestum, proprio in una di queste occasioni.
Ne è nata l’intensa intervista fiume che state per leggere.
Per iniziare, so che hai una doppia anima, perché hai fatto anche teatro, hai lavorato in Rai. Perciò come nasce il Coleman musicista.
Il Coleman musicista nasce da piccolino. Da bambino già mi piaceva cantare. Canticchiavo tutto il giorno. Poi a 14, 15 anni, le prime band di ragazzini. Le possiamo chiamare band da garage. E poi piano piano insomma, quella che era una gioia da piccolo è diventata una carriera.
Per quanto riguarda il teatro e la televisione molto poco, sì. In sostanza ho fatto delle cose perché potevo prestarmi a questa esperienza. Mi è capitato di fare un po’ di reality e un po’ di televisione ma veramente così per caso, però non è la mia anima principale. Più che altro l’ho fatto per curiosità, per cercare di imparare qualcosa in più.
Quale è stata la tua formazione musicale? I tuoi maestri, o i tuoi stimoli musicali? Quelli degli inizi, ma anche quelli attuali.
Ma guarda io non sono un fanatico, però se dovessi dire da cosa ho cominciato, è stato dalla musica nera, dalla musica soul. Quindi Stevie Wonder, gli Heart Wind and Fire… ma anche il rock dei Led Zeppelin e dei Deep Purple. Roba che si sentiva da ragazzi e che ci lasciava veramente stupefatti. Poi col tempo ho cominciato ad ascoltare il jazz… . E un giorno all’improvviso ho sentito Marley, che mi ha lasciato folgorato. In Marley ho trovato l’essenzialità di tre accordi solamente, tre parole, e tanto tanto cuore. Considera poi che venivo dai circoli di electric band ed Herbie Hancock, che comunque continua a piacermi. Però ecco, era un approccio molto tecnicistico, alla musica e alla voce. Ascoltavo anche i cantanti, molte donne: Anita Baker, Joni Mitchell…
Però con Marley capii che c’era anche un’altra strada: quella della semplicità. La strada di un ritmo diverso, ‘in levare’. Di qualcosa che ti prende l’anima e ti lascia, nel tempo di una canzone, di esprimere tutto quello che devi esprimere.
E là sono rimasto folgorato.
Poi ti ripeto, crescendo si cambia: ho cominciato a lavorare, a farlo come professione, a lavorare con altri gruppi. Ho fatto i miei 5 dischi in questi miei 35 anni di attività, che sono completamente diversi l’uno dall’altro. Ho fatto le mie esperienze.
Come è cambiata la musica da quando hai cominciato ad oggi, secondo te? Quella internazionale, ma anche quella italiana
La musica non è cambiata e non credo cambi. Sono le persone a cambiare. E quindi attraverso di esse sono cambiati anche i grandi artisti. C’è qualcuno che addirittura ha smesso di suonare… È cambiato probabilmente l’approccio alla musica. Oggi è un prodotto di consumo, quindi se vuoi andare a ricercare qualche cosa di diverso e di valido, devi farlo col lanternino.
Per quanto riguarda la musica italiana non so che dirti, perché io non l’ho mai seguita. Da ragazzino seguivo un po’ Guccini, ma poche canzoni. De Gregori mi ha sempre fatto un po’ la palla. Ma in realtà questo modo cantautorale non mi è mai piaciuto molto, ho sempre preferito chi gli dà proprio dentro. Localmente, seguivo Pino [Daniele], ma mi sono fermato a Bonsuarè, è stato l’ultimo disco suo che ho comprato.
Penso che di musica oggi a Napoli ce ne sia. Ma nulla che personalmente mi appassioni sul serio. Detto ciò, è anche vero che io non mi appassiono facilmente: io non considero la musica, o lo scrivere canzoni, funzionale all’obiettivo di diventare famoso, o del fare dischi per fare dischi. Ogni pezzo per me è un quadro che io faccio. Sta là, poi chi lo vuole vedere lo vede. Che siano 3 o 30 o 300 persone, non importa. L’importante è che quando uno lo sente il pezzo, gli lasci qualche cosa.
Mi vengono in mente questioni. La prima è di carattere molto generale, e un po’ naif se vuoi: Che cos’è l’arte, secondo te?
L’arte io la considero la libertà di espressione. È la possibilità di esprimersi, senza badare al giudizio degli altri. È il proporre qualche cosa che va completamente al di fuori. Io vengo dall’istituto d’arte, mi piace anche la pittura. Vado a vedere mostre, mi piacciono molto gli scultori… Mia madre diceva che vivo con la testa fra le nuvole, perché scrivevo pezzi tutto il giorno tutti i giorni, e continuo a farlo da sempre. Per esempio, anche oggi che parlo con te: domani me ne vado e fra un mese qualcosa di te si trova in un pezzo. Tu non lo sai, però qualche cosa di te mi è rimasto ed entra in un pezzo. Questo è insomma: raccontare quello che provo, che vedo, che vedo attorno. Quello che mi fa sentire bene e quello che mi fa sentire male. Quello che è comodo e quello che è anche scomodo. È la possibilità di rappresentare questo; una forma di protesta se vuoi, per cercare di cambiare le cose.
La seconda questione si ricollega a quello che dicevi sulla passione che sta nel reggae, in Marley ecc… Ad esempio questa sera ho notato un certo trasporto in alcune parole più che in altre. Come in Babylon Will fall. Cos’è Babylon?
Babylon è il sistema. Il sistema che ci schiaccia. Lo vediamo no? Babylon sono i politici che campano sulla pelle dei popoli. Babylon è la struttura che vuole, appunto, castrare l’arte. Non la vuole l’arte, perché questa potrebbe cambiare le cose, far cambiare opinione alle persone.
A me piace molto Egon Schiele. Quando sono stato a vedere una sua mostra per la prima volta, vedendo i suoi quadri dal vivo mi sono sentito quasi male. La mia vita è cambiata. Nello stesso modo di quando ho visto Qualcuno volò sul nido del cuculo. Oppure Arancia meccanica. Erano quei tempi, e io avevo pure un’età completamente diversa. Però ecco, quelle sono le cose che mi hanno cambiato la vita. Come Marley.
O la prima volta che ho visto Steve Wonder. Mi è capitato di vederlo dal vivo due o tre volte, ma la prima resterà sempre qualcosa di straordinario: poterlo vedere coi miei occhi sul palco, sentirlo suonare, sentirlo parlare, sentire le cose che aveva da dire. Era sempre il bene quello che veniva fuori dalle sue parole. Il rispetto per gli altri, la positività, sforzarsi di essere uniti e non distanti.
Ho scritto un pezzo che si chiama Social è nu loop proprio perché trovo che il social è tutto fuorché social. Quando la mattina scorro le pagine un po’ mi viene l’ansia. C’è da dire che non sono manco tanto social: posto delle cose quando veramente lo sento. Ma se mi guardo attorno, ai miei amici… scoprire che tanti di loro, con i quali ho condiviso cose molte importanti, oggi fanno veramente dei discorsi da fascista o addirittura da razzista… senza rendersene conto magari, perché tutti presi dal turbinio di ciò che chiamo il narciso patologico digitale. Un narcisismo patologico, dato dalla ricerca del like, dal sentirsi parte di qualcosa che in realtà non esiste.
A me piace invece avvicinare le persone, toccarle, guardarle negli occhi. Per me questo è il sociale.
Sei originario di Napoli, ma da alcuni anni vivi in Belgio. Quali sono le ragioni che ti hanno portato lì. E come vedi L’Italia dal di fuori? E in generale come è la Babilonia europea vista da lì?
Guarda me ne sono andato da Napoli perché ho lavorato per tutti e con pochi. Napoli è una città in cui ho cominciato a non crescere più. La mia voglia è stata sempre quella di imparare, per crescere ancora, per allargare le mie vedute e il mio cuore. Purtroppo, Napoli questo non me l’ha permesso. Non lo permette. Come città fagocita tutto ciò che crea. Ho scritto un pezzo che si chiama Terra morta, per cui sono stato anche molto criticato È una ballad che dice proprio che noi ‘criscimm i figli per dinta a munnezza’. E questa è la verità: una monnezza reale, proprio fisica. E allora perché non scriverlo?
C’è tanta gente che parla di Napoli e del napoletanismo che concede soltanto l’immagine bella, da cartolina. Che ci sta, perché Napoli è veramente una bellissima città.
Purtroppo non è una città europea. Ci prova ma non lo è. Forse anzi è dalla periferia che esce fuori il meglio.
Siamo sempre gli stessi che suoniamo in giro, ci stiamo facendo vecchi. La mia domanda è i ragazzi dove sono? Me ne sono andato anche per lasciare uno spazio vuoto che qualcuno possa colmare.
Una volta arrivato a Bruxelles… Certo conoscendo la storia del Belgio, non sembra proprio il posto ideale per me. Eppure lì ho trovato il civismo di cui avevo bisogno. Avevo bisogno che la metropolitana arrivasse in orario; di stare in un posto che non puzza e sia pulito. Avevo bisogno di stare in una città in cui ci sia arte tutti i giorni, dappertutto. E Bruxelles è così. È una città in cui l’arte la vedi in ogni angolo della città, perché in ogni angolo c’è qualche cosa di artistico: un’esposizione, qualcuno che suona… È proprio un immaginario collettivo… A Napoli se suoni per strada oggi ti cacciano e ti fanno una multa da mille euro, e ho amici che l’hanno avuta questa multa. A Bruxelles basta andare al comune, prendere il tuo bigliettino, ti danno l’orario, vai nel posto, esponi la tua opera, fai la tua musica.
Sebbene i fiamminghi siano gente non bellissima o simpaticissima, investono nella musica, nell’arte, nel design. Ogni santo giorno c’è qualche cosa da fare, o puoi mangiare un cibo diverso: greco o indiano, americano, turco, marocchino, libanese. È una città che mi dà quello che ,i serve. È vero che il tempo fa schifo, e pure il cibo non è un granché ma ci si abitua. E se so che mi posso cibare di musica, posso anche mangiare quello hanno da mangiare loro… quelle polpette al sugo dallo strano sapore. Intanto però so che il pomeriggio vado ad ascoltare musica in qualche piccolo club, con 10 persone e il cantante che ci fa un piccolo concerto. Che ci parla, ci racconta delle cose. E io cresco. Oppure vado a vedere una bella mostra gratuita di un bel pittore, di uno scultore. È una città piena di atelier, di posti dove si fa coworking. È una città completamente in movimento, in cui ci sono veramente tutte le etnie del mondo. È vero che, e torniamo al Babylon europeo, queste comunità non si integrano molto. C’è Matongé che è completamente africana, è proprio Congo. Poi c’è Malbec che è araba. Ma quando giri in città incontri tutte queste etnie e nella metropolitana nessuno dà fastidio a un altro. Quando sono in Italia e prendo l’autobus per andare in Puglia, mi sento chiamare negro almeno 10 volte al giorno. Che poi non è manco vero, perché io so’ marrone.
Però hai capito che cos’è successo? Noi restiamo sempre più indietro, mentre il nord Europa va avanti. È un Nord-Europa che dice sì alla marjuana, ma no alla benzina o al diesel. Che incentiva ad andare in bicicletta. Incentiva avere dei figli, dandoti degli aiuti economici mensili… È un’Europa di parchi aperti, in cui c’è il rispetto l’uno dell’altro. Cosa che invece in Italia, soprattutto al Sud, abbiamo completamente perso. Molti giovani bravi, veramente bravi sono in balia del nulla. In balia di Instagram. Tutto è per avere like, da mettere su facebook. Non è più una vita fatta per noi ma per farla vedere e mostrarla agli altri. Io vengo da lontano, da quando tutto questo non esisteva. Quindi mi posso difendere bene. I ragazzi non hanno colpa per queste cose. È Babylon. Il fatto di avere in tasca un device che ti permette di essere, diciamolo tra virgolette, in contatto col mondo intero. Questo è Babylon.
Dici di esserti allontanato da Napoli. Però dal punto di vista linguistico la porti con te, nel parlare ma anche nelle canzoni.
Ma perché io so’ napulitano. Io comunque so’ napulitano. Oddio, sono mezzo americano solo perché mio padre lo era, ma io so’ napulitano. Sono nato a Napoli, ci torno una volta al mese. È la mia lingua. Come è anche la mia lingua l’inglese.
Per concludere, puoi dirci qualcosa sui tuoi progetti futuri?
L’anno scorso ho fatto un album che è Pòmmch’, e poi ho pensato di smettere di produrre album. Quindi ora produco dei singoli, uno ogni tre mesi, quattro mesi, insomma quando è il momento. Penso di raggrupparli una volta arrivati a sette o otto, in un solo progetto. E adesso è arrivato il momento di iniziare a pensarci, perché i singoli ormai sono tre o quattro. Quindi ora sto immaginando come chiuderò.
Nel frattempo, sto lavorando con questi ragazzi che hai visto stasera sul palco insieme a me. Stiamo producendo una serie di pezzi, completamente reggae. Il progetto si chiama Dreaming of Zion: Zion come metafora di un posto in cui si può vivere bene e in pace. Non il paradiso, ma un posto in cui si po’ vivere con il rispetto per gli altri.
Una utopia realizzabile?
Una utopia sì… che per me si realizza quando lavoro con loro, e quando sono sul palco. Quello è Dreaming of Zion, il raggiungere un qualche cosa che ci fa stare veramente bene: un posto dove ci rispettiamo, ci vogliamo bene, ci scambiamo esperienze, ci tocchiamo, ridiamo, scherziamo. Come sul palco.
Chiuderò il progetto con questi ragazzi con un altro pezzo che sta per uscire: si chiama Music is a massive healing weapon. Che poi è il mio motto: la musica come arma di guarigione di massa.
E basta.