È stata la mano di Dio è un film distribuito da Netflix a partire dal 15 dicembre 2021 dopo essere passato in alcune sale cinematografiche italiane. Accolto da un prolungato applauso alla proiezione per la stampa alla Mostra del Cinema di Venezia, il film si presenta come un serio concorrente al Leone d’Oro. A dirigere È stata la mano di Dio è Paolo Sorrentino, noto regista e sceneggiatore napoletano. Nato nel 1970 a Napoli, Sorrentino cresce nel quartiere Vomero. Quando ha 16 anni entrambi i suoi genitori muoiono all’improvviso ed in modo del tutto inaspettato. Sorrentino sfugge al destino malvagio, che ha invece colpito sua madre e suo padre, grazie all’impegno già preso di dover andare allo stadio per vedere Maradona giocare a pallone. Sorrentino arriva quindi a percepire Maradona, un uomo già da tutti visto come una divinità sul campo di calcio, anche come la forza che ha protetto la sua vita. Quasi tutti i momenti del film sono vissuti attraverso gli occhi di Fabietto Schisa, un ragazzo goffo di 17 anni che vive nella Napoli degli anni Ottanta e che lotta per trovare il suo posto nel mondo, fino a quando alcuni eventi cambiano la sua vita. Uno è l’arrivo a Napoli dell’idolo del calcio Maradona, che suscita nell’intera città un orgoglio immenso. L’altro è un drammatico incidente che farà toccare a Fabietto il fondo, indicandogli la strada per il futuro. Apparentemente salvato da Maradona, miracolato dal caso o dalla mano di Dio, Fabietto sperimenta la confusione della perdita e contemporaneamente l’inebriante libertà di essere vivi…
“in ogni caso, quella è un’età maledetta” osserva Sorrentino a proposito dell’adolescenza. “Vivi in un limbo, in quel territorio di mezzo tra il bambino che non sei più e l’adulto che non sei ancora. Dunque, il tuo rapporto con la realtà è già di per sé complicato. Per Fabietto, diventa ancora peggio perché perde il punto di riferimento dei suoi genitori e non sa come fare per rialzarsi in piedi”…i componenti della famiglia Schisa assomigliano molto a quelli della famiglia di Sorrentino così come era negli anni Ottanta. Per ritrarre il padre e la madre del film con sfumature autentiche della vita reale, Sorrentino si rivolge a due attori che conosce bene: nei panni di Saverio c’è Toni Servillo, famoso attore e regista teatrale italiano, invece ad interpretare Maria c’è Teresa Saponangelo. Nella prima parte del film, la storia tra Saverio e Maria possiede la vivacità di una storia d’amore, di un matrimonio con i suoi alti e bassi costruito sulla tolleranza. Se Maradona fornisce un tocco del divino, in È stata la mano di Dio la forza terrena viene generata dalle donne del film, la cui perspicacia mantiene Fabietto a terra quando il terreno gli viene a mancare sotto i piedi. “Come spesso capita nella vita reale, le donne del film la sanno più lunga degli uomini” dichiara Sorrentino. Due donne in particolare esercitano un’influenza monumentale su Fabietto: una è la sensuale zia Patrizia, interpretata da Luisa Ranieri, mentre l’altra è l’anziana Baronessa che vive al piano di sopra della famiglia Schisa, interpretata da Betti Pedrazzi.
Sorrentino è all’apice della sua carriera grazie a questo film autobiografico che racconta la sua Napoli e la sua adolescenza vissuta negli anni Ottanta, quando da giovane napoletano visse l’euforia per l’arrivo in città del fuoriclasse argentino, contemporaneamente alla tragedia della sua famiglia; nello stesso periodo, infatti, i suoi genitori rimasero uccisi nella casa delle vacanze, a causa di esalazioni di monossido di carbonio mentre lui, allora diciassettenne, riuscì ad evitare l’infausto destino non avendoli accompagnati a Roccaraso per andare allo stadio a seguire la squadra del cuore. Fabio, interpretato da Filippo Scotti, è l’alter ego di Sorrentino: studente di liceo, innamorato della zia Patrizia, e speranzoso come la città intera che Ferlaino, proprietario del Napoli, acquisti il campione Diego Armando. Maradona, col suo celebre goal di mano a cui fa riferimento il titolo del film, diventa quindi un simbolo per evocare la Napoli in cui Sorrentino si è formato. Una storia che ci parla anche e soprattutto dell’aspirazione a fare cinema come reazione alla perdita improvvisa dei genitori, quindi della volontà di fare cinema come evasione dalla realtà cruda e spietata: il protagonista deve trovare un modo per sfuggire alla profondità della tragedia che ha colpito la sua famiglia, e lo fa con una sorta di rinascita interiore, un insieme di devastazione ma allo stesso tempo liberazione. “Capita a volte di provare l’esigenza di registrare i ricordi, di fissarli da qualche parte” afferma Sorrentino, che poi continua: “Con il passare del tempo, ho pensato che forse sarebbe stata una buona idea farne un film perché avrebbe potuto aiutarmi non tanto a risolvere i problemi che ho avuto nella vita, quanto ad osservarli da una posizione molto più vicina e a conoscerli meglio. Tutti i miei film sono nati da sentimenti che mi appassionavano, ma dopo averli realizzati quella passione è svanita; così ho pensato che se avessi fatto un film sui miei problemi, forse sarei anche riuscito a dimenticarli, almeno in parte. L’aspetto interessante di fare un film autobiografico è che a quel punto quei problemi non sono più i miei problemi, ma sono i problemi del film. Se altre persone potranno relazionarsi e identificarsi con le mie esperienze, se si vedranno specchiate nel film, significa che la mia sofferenza sarà divisa a metà” conclude Sorrentino.