Fa discutere la sentenza del 9 luglio della Corte di Cassazione relativa al femminicidio di Lorena Quaranta avvenuto il 31 marzo 2020 per mano del suo fidanzato all’esito di una lite furibonda.
Dalla lettura delle motivazioni della sentenza di annullamento con rinvio della Suprema Corte, emerge che i giudici di merito non avrebbero adeguatamente verificato «la specificità del contesto», caratterizzato dal momento tanto devastante che viveva l’umanità con conseguenze sull’equilibrio psico-fisico dell’assassino, sottoposto ad uno stress notevole collegato alle restrizioni in atto e alla paura della pandemia , vissuta con una forte condizione di ansia a causa della diffusione del virus Covid 19.
I giudici di merito non avrebbero verificato pertanto se oltre alla specificità del contesto la «difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale».
Il ragionamento dei giudici della Corte Suprema e’ inerente all’applicabilità delle attenuanti generiche da tenere presenti nella condanna all’ergastolo per l’infermiere calabrese Antonio De Pace per il femminicidio di Lorena Quaranta, la studentessa di Medicina, originaria di Favara, centro della provincia di Agrigento.
«Deve stimarsi – si legge nelle motivazioni – che i giudici di merito non abbiano compiutamente verificato se, data la specificità del contesto, possa, ed in quale misura, ascriversi all’imputato di non avere “efficacemente tentato di contrastare” lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda, e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale».
Con queste parole il 9 luglio la Cassazione ha annullato così la condanna all’ergastolo di Antonio De Pace, “limitatamente al diniego delle circostanze attenuanti generiche”, e ha rinviato “alla Corte di Assise di appello di Reggio Calabria, affinché proceda ad un nuovo esame sul punto che, libero nell’esito, sia esente dai vizi riscontrati”.
Intervistato uno dei difensori di Antonio De Pace ha dichiarato che “Stiamo parlando di un annullamento con rinvio, quindi la futura sentenza potrebbe anche confermare l’ergastolo”. E seppure possa costituire un pericoloso precedente – evidenzia il legale che “ gli stati emotivi e passionali sono già considerati come indici per concedere le attenuanti generiche. In questo caso, l’ergastolo era stato determinato dall’aggravante introdotta dal codice rosso. E già in appello il procuratore generale aveva chiesto 24 anni, rifacendosi proprio alle circostanze attenuanti”.
La giovane studentessa di medicina fu uccisa in una villetta di Furci Siculo il 31 marzo 2020.
Agghiacciante la ricostruzione del delitto nelle pagine della Cassazione.
Sono le 6 del mattino del 31 marzo 2020, in piena pandemia da Covid 19, come ampiamente rammentato fin nell’incipit del testo del provvedimento.
L’infermiere causò la morte della compagna “colpendola con un oggetto contundente alla fronte, mettendosi prono su di lei sì da immobilizzarla in posizione supina, con le braccia bloccate, e apponendo la mano destra su naso e bocca e stringendo il collo con quella sinistra, fino a cagionare un arresto cardio circolatorio per asfissia acuta da soffocazione diretta e subito dopo provò, senza riuscirci, ad uccidersi provocandosi dei tagli ai polsi”.
Il femminicidio avvenne proprio nella villetta dove la coppia conviveva a Furci siculo, nel messinese, il 31 marzo del 2020, durante la fase del primo lockdown.
Al culmine di una lite l’infermiere strangolò la compagna e, dopo un tentativo di suicidio, chiamò i carabinieri confessando il delitto che sarebbe stato originato, a suo dire, da un presunto «stato d’ansia» causato dalla pandemia.
Ed è proprio quel periodo particolare che per i giudici bisogna guardare.
L’emergenza e le restrizioni, come è stato ricostruito nella sentenza, avrebbero inciso sull’animo dell’infermiere.
Le 12 pagine della sentenza evocano, in maniera costante, il riferimento all’epidemia di Covid che fa da cornice al femminicidio.
Scrivono i giudici in un altro passaggio: “In un frangente storico drammatico, in cui l’umanità intera è stata chiamata, praticamente dall’oggi al domani, a resistere ad un pericolo sino a quel momento sconosciuto, invasivo ed in apparenza inarrestabile”, l’imputato “ha vissuto un disagio psicologico, poco a poco evoluto in ansia, e quindi in angoscia, per attutire il quale ha pensato (…) di raggiungere i genitori e i fratelli, a costo di sottrarsi all’adempimento dei doveri di assistenza e solidarietà verso la compagna di vita”.
Sulla vicenda e’ intervenuto il centro antiviolenza Una di noi, presieduto dall’avvocata Cettina Miasi che ha evidenziato come «La lettura delle motivazioni ci lascia sgomente e fortemente allarmate per la tutela di tutte le donne come Lorena».
Qualcuno parla di sentenza da brivido che può rappresentare un pericoloso modo di giustificare un assassinio cruento e crudele dietro l’appannaggio di uno stress temporaneo legato al momento vissuto non solo personalmente dal colpevole.
Se si pensa al momento storico che viviamo le attenuanti di cui potrebbero fruire nuovi assassini potrebbero essere tantissime: incertezza mondiale per le guerre in atto, allarme globale per il surriscaldamento e la crisi climatica o ancora “non esistono più le mezze stagioni”.
Proprio per questa sua ambiguità la decisione della Cassazione sta già suscitando aspre polemiche, anche se l’annullamento con rinvio della condanna all’ergastolo per un femminicidio non potrebbe non vedere riconfermata la massima condanna anche in una rivisitazione del processo alla luce delle attenuanti non considerate in primis perché il reo era «stressato a causa del Covid e del lockdown».
I genitori di Lorena sono scioccati e turbati per questa decisione.
Allo sdegno collettivo si aggiunge quello comprensibile della famiglia: «Non solo per mia figlia – spiega papà Vincenzo -, ma per tutte le donne che vengono uccise dagli uomini. È una giustizia malata. Lottiamo ogni giorno contro i femminicidi, con le associazioni andiamo nelle scuole a parlare di violenza, ma se si lotta contro tutto questo e poi arriva la giustizia a buttare tutto in aria, abbiamo perso». Ricorda i messaggi sul telefonino di Lorena, suo padre, lo “stress” «che non c’era visto che durante il lockdown (che era iniziato da appena venti giorni) Antonio usciva tutte le sere per andare a giocare con gli amici alla Playstation».
Piuttosto, a giudizio del padre, il giovane non si sentiva all’altezza della ragazza, «lei era quasi laureata in Medicina, lui specializzando in Scienze infermieristiche» spiega ancora papà Vincenzo.
La paura di non essere all’altezza della sua donna, o forse di perderla perché lei poteva decidere di andarsene, di lasciarlo, viste le sue ambizioni di crescere, di studiare ancora, di diventare ginecologa, sono state all’origine della sua furia: prima di soffocarla, Antonio ha colpito a lungo Lorena con una lampada, fino a spaccarle i denti.
Un racconto straziante di un omicidio terribile che si scontra in modo inaccettabile con le fredde motivazioni della sentenza laddove lo stato d’animo del colpevole sembra divenire più importante delle azioni messe in atto e quale che sia la decisione finale, il solo aver posto l’accento su questa possibilità assume i contorni di una decisione di una gravità enorme in quest’epoca in cui si assiste ad una vera strage di donne trucidate e uccise brutalmente da chi pensavano di essere amate.
Non è la prima volta, d’altronde, che in caso di un delitto di violenza contro una donna, giudici e tribunali riescano a intravedere le “attenuanti”.
Delitto d’impeto, “ha perso la testa”, “furia assassina” sono tutte attenuanti verbali che implicano un’accettazione dei femminicidi più atroci, come se uccidere una donna che si ama possa davvero essere solo un momento di “follia” , di gelosia o addirittura- di recente ingresso – di “stress” dettato da motivi passionali legati ad un momento specifico e non invece da un atteggiamento culturale fatto di stereotipi e pregiudizi, profondamente radicato nella nostra società per cui la donna appartiene all’uomo e in quanto cosa sua, non può avere sogni, non può vestirsi come vuole, non può avere ambizioni, non può studiare, laurearsi o fare carriera sul lavoro, soprattutto non può lasciarlo senza innescare un meccanismo perverso di persecuzione, sofferenza e morte.
Tale atteggiamento diviene così un atroce movente ideologico, silente, profondo, impresso nelle persone tanto da divenire luogo comune, atto a giustificare anche delitti efferati fino all’incomprensibile come somministrare un veleno per topi alla propria compagna di vita per giunta incinta come nel caso di Giulia Tramontano ovvero a rincorrerla in un parcheggio e colpirla a tradimento con infinite coltellate come Giulia Cecchettin e l’elenco sarebbe troppo drammaticamente lungo e doloroso.
Il problema di questa sentenza è quello di riconoscere e dare spazio a questa radice del pensiero da parte di chi, invece, dovrebbe osteggiarlo e combatterlo in forza di norme di legge esistenti e in nome della “Dea Giustizia” che deve avere come priorità, come faro quella di stare e schierarsi in modo netto dalla parte delle vittime non solo nelle arringhe degli avvocati o nelle intenzioni dei PM quanto nelle decisioni finali destinate davvero a lasciare un segno nella vita di chi ha agito accecato dal se’ e dimentico dell’amore che tanto declamava.
Ignorare questa priorità significa distruggere ancora una volta le famiglie colpite dal dolore della perdita di una madre, una sorella, e sempre più spesso di una figlia, ma anche tutte le associazioni, i centri antiviolenza, la scuola che stanno provando a cambiare le cose, a rinvenire una nuova strategia di comunicazione fin da piccoli dando rilievo alle emozioni, per debellare una cultura della sopraffazione e dell’amore malato.
Non può esistere che una donna venga uccisa a causa dello “stress” e che lo stressato debba pagare di meno per quello che ha fatto, altrimenti il rischio è che passi un messaggio fuorviante e scomodo.
Siamo in un paese democratico e garantista quindi è legittimo offrire tutte le cautele del caso a chi veste il ruolo di imputato e poi condannato, ma da garantismo a giustificazionismo ce ne passa ecco perché è’ indispensabile che le figlie, le madri, le amanti, le donne, tutte non siano più le vittime sacrificali all’altare del patriarcato perché il loro diritto a vivere non può valere di meno di uno stato di ansia e di stress di chi ha deliberatamente ucciso con mani insanguinate e assassine in nome di un amore malato e ossessivo che nulla sa di amore e nulla sa di amare.