Film di Peter Farrelly che, candidato a 5 premi Oscar (miglior film, miglior attore, miglior attore non protagonista, migliore sceneggiatura originale, miglior montaggio), pur uscendo quasi in sordina nelle sale, ha in breve saputo farsi spazio, grazie a una sceneggiatura semplice e assai ben curata.
Ad esempio, è una vera goduria, per gli amanti del genere, poter osservare tutte le auto più in voga di quell’epoca. Ce n’è per tutti i gusti. Davvero.
Cos’è Il ‘Green Book’? Ecco, cominciamo a chiarircelo. È il titolo è una guida per automobilisti afroamericani, costretti a guidare solo su alcune strade e a soggiornare solo nei locali a loro assegnati. In sostanza, una specie di ghettizzazione itinerante. Tuttavia, il film di Farrelly slalomeggia attraverso territori proibiti e consuetudini consolidate dai silenzi dettati da refoli di buon senso.
New York City, 1962. Tempi strani e turbolenti per gli United States. Si è a metà fra la sensazione di un incipiente cambiamento progressista e l’avvento di un degrado socio-culturale difficile da gestire. La musica ne rappresenta una componente importante, ma non necessariamente riesce a fare da collante fra i vari segmenti della popolazione.
In detto contesto, Tony Vallelonga (Viggo Mortensen, del quale personalmente adoro la versione “bullo” come in La Promessa dell’assassino), detto “Tony Lip”, lavora come buttafuori al Copacabana, perenne viatico anche di gradassi, “guappetti di cartone” e veri signori della malavita locale, sempre in tiro e dall’umore acido quanto minaccioso ad ogni dissapore.
La clientela non manca. Ma, a un certo punto, il locale deve chiudere per due mesi, a causa dei lavori di ristrutturazione. Brutta grana per Tony Lip, che ha mani pesanti e che usa con estrema abilità. In buona sostanza, sembra che sia nato per menare gli altri. Trovare quindi un altro lavoro non è affatto semplice. Tuttavia, in molti si prodigano per procurargliene uno, sebbene di carattere temporaneo. Alcuni però hanno l’intenzione di deviarlo più a fondo lungo i binari della malavita. Lui però, pur lusingato, ci rimugina su il giusto e declina. Non vuole esondare i confini, non ha intenzione di varcare confini irreversibili. Possiede in sé i concetti di giusto e sbagliato. Ha una famiglia. E il senso di responsabilità prevale. Ecco, ho particolarmente apprezzato questo aspetto del film. Sequenze secche, decisioni di Tony altrettanto perentorie e incontrovertibili. Poco istruito, rozzo nell’espressione. Ma in ogni modo deciso a non svendere la propria dignità. Un Bravo, sincero e sentito, va al regista.
Tony ha moglie e due figli che – al di là dei suoi modi da burbero e ben lungi dall’aplomb del galantuomo -, mi piace sottolineare, ama da morire (e nella pellicola, di tale amore, si fa ampia e meritoria rappresentazione) – e deve trovare il modo di sbarcare il lunario per quei due mesi.
L’occasione buona si presenta sotto le sembianze del dottor Donald Shirley (Mahershala Ali), persona delicata, di buon gusto e di classe. La scena in cui Tony guarda attonito l’arredamento della sua dimora, che comprende un allegorico trono, deputato a far bene accomodare le artistiche terga del proprietario, è fra le più spassose del film.
Donald Shirley, serio, scrupoloso, compassato, è un musicista che sta per partire per un tour di concerti col suo trio che lo porterà dall’Iowa al Mississipi. Tuttavia, Shirley è afroamericano, in un’epoca in cui la pelle scura era ancora indigesta ai più, soprattutto nel Sud degli USA.
Peraltro, anche lo stesso Tony, italoamericano cresciuto con la malsana visione dei neri come bestie, è tendenzialmente un razzista high level. A casa sua, dopo che un paio di uomini di colore che gli avevano sostituito parte del pavimento della cucina ed avevano sorseggiato una bevanda offertagli da sua moglie (Linda Cardellini), ne getta via i bicchieri di vetro. La stessa moglie che, nel rinvenirli nella pattumiera con contenuto sconcerto, scuote la testa mostrando il bianco degli occhi che si ostenta di fronte alla personalizzazione dell’idiozia.
Alla fine, per “125 dollari alla settimana più le spese”, Tony accetterà di essere il suo autista per il tour. Pur digerendo di malavoglia di dover essere piuttosto “polivalente”. Dovrà occuparsi al tempo stesso della sezione “lavanderia” del viaggio, e di essergli di supporto anche per le questioni più banali. Perché lui è un artista, e non può occuparsi di facezie. Insomma, un bianco che serve un nero. In pieni anni ’60. Al tempo, roba da matti.
‘Green Book’ è basato sulla storia vera di Shirley, un virtuoso della musica classica, e del suo temporaneo autista. Un viaggio a capofitto nel pregiudizio razziale e nelle singolari recrudescenze legate agli eventi cagionati dalle reciproche differenze.
Il musicista nero è colto e poliglotta, veste come un damerino e detesta il vituperio. Al contrario, Tony Lip è quasi analfabeta, parla con un pesante accento del Bronx farcito da locuzioni di italica derivazione; divora con le mani il cibo da fast food (a proposito, la scena con cui mangia il pollo fritto mentre guida, offrendone all’attonito musicista è esilarante). Paradossalmente, in un itinerario così controverso e costellato di potenziali equivoci e dissapori a sfondo razziale con coloro che incontreranno sul loro cammino, Tony Lip si dimostra l’uomo più giusto per accompagnare il raffinato musicista di colore. Anche perché il suo buon cuore sa farsi spazio quando serve, e lo soccorrerà in momenti davvero difficili e drammatici.
Un ottimo film, anche se non il capolavoro del secolo, intendiamoci. Trattasi però, indubbiamente, di un efficace affresco del contesto razzista in cui l’America annaspava in quegli anni, ben stigmatizzato con la giusta dose di ironia, oltre che grazie a una evidente punta di amarezza per quanto, in ogni epoca storica, sa – e può – esser stupida e superficiale la gente.
La marcia in più della pellicola la forniscono i 2 interpreti, manco a farlo apposta entrambi candidati al Premio Oscar: Viggo Mortensen, italoamericano rozzo, refrattario alle regole, ma dotato di buon senso e vera anima; Mahershala Ali, musicista nero, colto e misurato, oltremodo sensibile. Un evidente contrappasso fra personalità che però li porterà ad una reciproca crescita. Nonchè alla reciproca comprensione. Tony Lip impara tanto dal suo passeggero; così come Don Shirley – proprio grazie ad alcune efficaci arringhe popolane di Tony – capirà che dovrà riconnettersi alle sue origini, smettendo di osservare le persone del suo colore quasi con composto fastidio.
‘Green Book’ è un bel film americano da grande palcoscenico, con un’aurea di apparente buonismo. Il quale cela, invece, nelle reali intenzioni del regista, una notevole dose di coraggio narrativo.
Specie nel rappresentare un concetto basilare: la dignità, quella che non si vende e non si compra.