Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto. In quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz,la scoperta del lager e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l’orrore del genocidio nazista e gli strumenti di tortura e di annientamento utilizzati.
Gli scempi tedeschi sono stati documentati e spesso romanzati per lasciare un segno indelebile anche nelle generazioni più moderne. Tanti i libri cult che rappresentano un episodio della storia che si vorrebbe non fosse mai accaduto. Vite spente e consumate atrocemente ree di essere di religione ebraica, ma anche gli zingari e gli omosessuali furono atrocemente perseguitati.
Manifesti perenni che ci aiuteranno a non dimenticare quanto la barbarie e l’esaltazione dell’uomo possa portare ad avvenimenti vergognosamente crudeli.
Molti sopravvissuti ormai non ci sono più e quelli che ancora sono in vita, oltre al tatuaggio numerico sul braccio ne portano uno più indelebile nella mente.
I miei consigli di lettura non riguarderanno libri come Il diario di Anne Frank, Il bambino con il pigiama a righe o Se questo è un uomo che sono forse tra i più conosciuti, ma mi addentrerò alla scoperta di titoli meno letti ma di uguale importanza e se riesco affiancherò la vera foto del protagonista alla copertina del libro.
Ho sognato la cioccolata per anni di Trudi Birger
La storia di una bambina che, dai té danzanti di Francoforte, si ritrova rinchiusa nel ghetto di Kosvo prima di finire nel campo di concentramento di Stutthof. Una storia vera, di affetto e devozione. La prova d’amore di una figlia ragazzina, che nella grande tragedia dell’olocausto rifiuta di salvarsi per non abbandonare la madre, perché sa che solo da quel legame forte e profondo, indispensabile per entrambe, potrà attingere la forza per continuare a sperare anche quando, nuda e rasata, si vedrà spinta verso la bocca di un forno crematorio.
La memoria dei fiori. Il diario di Rywka Lipszyc
È l’aprile del 1944, l’ultima neve del lungo inverno polacco attanaglia ancora le vie del ghetto di Lódz: i fiocchi candidi scendono sulle nere e informi divise degli operai ebrei che lavorano per i nazisti. Ma c’è un fragile fiore che, in questo paesaggio desolato, con tutta la forza cerca di sbocciare. Rywka Lipszyc ha solo quattordici anni. Ogni giorno deve farsi strada tra le recinzioni di filo spinato, incalzata dalle armi dei soldati e dagli ululati laceranti dei cani. Dopo la morte dei genitori, è lei a prendersi cura della sorellina Cipka. La sua città, la casa che tanto amava, gli amici di scuola, sono ormai un pallido ricordo; al loro posto ci sono il lavoro, il freddo, la fame, gli orrori del ghetto e della segregazione. In mano Rywka stringe l’unica cosa che è rimasta veramente sua: il suo diario, l’unica illusione di speranza e di salvezza da un nemico che, semplicemente, vuole che il suo popolo smetta di esistere. In queste commoventi pagine prende vita il ritratto di una bambina costretta ad affrontare l’impossibile compito di diventare donna in un mondo dominato dalla violenza e dall’ingiustizia. Ma Rywka deve resistere. Per sé, per la sua famiglia, per le tante persone che, a rischio della loro stessa vita, ogni giorno le offrono aiuto. E l’unico modo per resistere è non smettere di sognare: la libertà per sé e per Cipka, una casa, un piccolo studio avvolto dall’ombra della sera, una penna, qualche foglio bianco per coltivare la sua più grande passione, la scrittura.
Il sacrificio di Éva Izsák di Januaria Piromallo
Quella della giovane ebrea ungherese Éva Izsák, fatta suicidare nell’estate del 1944 a diciannove anni e mezzo, è una storia vera. Una storia atroce, perché a decretare la sua morte è stato chi l’avrebbe dovuta proteggere. (…) Éva si fidava di lui e degli altri resistenti perché era come loro. Erano tutti giovani, molti di famiglia ebrea, in fuga dai nazisti, comunisti, si chiamavano “compagni” e si preparavano a costruire la nuova Ungheria. Januaria ha raccolto fonti, cercato negli archivi. Insieme al manoscritto (da cui sono tratti i corsivi di questo libro), sulla sua scrivania si sono impilati testi storici, saggi, articoli e foto dell’epoca. Ma le testimonianze ufficiali, se sono sufficienti a dare una versione dei fatti, non bastano a comprenderli. Ed è per comprendere che Januaria ha trasformato questa storia in un romanzo. Riempiendo i vuoti con l’immaginazione, sforzandosi di intuire i contorni delle cose anche lì dove le ombre erano troppo fitte per poterli scorgere.
DIARIO 1941-1943 di Etty Hillesum
All’inizio di questo Diario, Etty è una giovane donna di Amsterdam, intensa e passionale. Legge Rilke, Dostoevskij, Jung. È ebrea, ma non osservante. I temi religiosi la attirano, e talvolta ne parla. Poi, a poco a poco, la realtà della persecuzione comincia a infiltrarsi fra le righe del diario. Etty registra le voci su amici scomparsi nei campi di concentramento, uccisi o imprigionati. Un giorno, davanti a un gruppo sparuto di alberi, trova il cartello: «Vietato agli ebrei». Un altro giorno, certi negozi vengono proibiti agli ebrei. Un altro giorno, gli ebrei non possono più usare la bicicletta. Etty annota: «La nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi e nessuna persona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare». Ma, quanto più il cerchio si stringe, tanto più Etty sembra acquistare una straordinaria forza dell’anima. Non pensa un solo momento, anche se ne avrebbe l’occasione, a salvarsi. Pensa a come potrà essere d’aiuto ai tanti che stanno per condividere con lei il «destino di massa» della morte amministrata dalle autorità tedesche. Confinata a Westerbork, campo di transito da cui sarà mandata ad Auschwitz, Etty esalta persino in quel «pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato» la sua capacità di essere un «cuore pensante». Se la tecnica nazista consisteva innanzitutto nel provocare l’avvilimento fisico e psichico delle vittime, si può dire che su Etty abbia provocato l’effetto contrario. A mano a mano che si avvicina la fine, la sua voce diventa sempre più limpida e sicura, senza incrinature. Anche nel pieno dell’orrore, riesce a respingere ogni atomo di odio, perché renderebbe il mondo ancor più «inospitale». La disposizione che ha Etty ad amare è invincibile. Sul diario aveva annotato: «“Temprato”: distinguerlo da “indurito”». E proprio la sua vita sta a mostrare quella differenza.
Sono stato l’assistente del dottor Mengele di Miklós Nyiszli
Un medico legale ebreo ungherese scrisse le sue memorie immediatamente dopo essere uscito miracolosamente vivo dal lager di Auschwitz, dove aveva per un anno fatto parte del Sonderkommando, le unità speciali di deportati condannati a servire ai forni crematori, prima di essere sterminati a loro volta perchè testimoni troppo scomodi. Pur nel vasto repertorio della memorialistica sui campi, la vicenda di Nyiszli è unica, perchè egli racconta fin nei dettagli più raccapriccianti ciò a cui fu costretto da quello che può essere considerato, forse, il più bieco dei macellai nazisti, il famigerato dottor Mengele. Mai si erano lette testimonianze così dettagliate, così vicine ai delitti assurdi, continui, maniacali, portati a termine da sedicenti medici, convinti di dimostrare con prove alla mano l’assoluta superiorità della razza ariana sulle altre, scientificamente catalogate come inferiori. Come anatomo-patologo, il protagonista di questo libro si vide costretto ad eseguire autopsie, a sezionare cadaveri di gemelli, spesso bambini, ad assistere ad esperimenti, ad assecondare manie pseudo-scientifiche deliranti, che hanno reso il reparto cosiddetto medico del campo di Auschwitz il centro dell’inferno dell’intero Reich hitleriano.
Grazie alla sua provata padronanza della professione, il medico ungherese si renderà indispensabile a Mengele, riuscendo fortunosamente a salvarsi. Ma la sua vita continuerà ad essere popolata dagli incubi, dal mare di sangue innocente versato, dalle esecuzioni orribili alle quali ha dovuto assistere, dall’orrore degli esperimenti a cui ha contribuito. Una testimonianza lacerante, ma indispensabile in tempi di negazionismo, scritta con lucidità sconcertante e grande capacità di distacco, soprattutto nei momenti più atroci del racconto.
Dallo scudetto ad Auschwitz. Storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo di Matteo Marani
Non lo sapeva nemmeno Enzo Biagi, bolognese e tifoso del Bologna. “Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito” ha scritto in “Novant’anni di emozioni”. È finito ad Auschwitz, è morto la mattina del 31 gennaio 1944. Il 5 ottobre 1942 erano entrati nella camera a gas sua moglie Elena e i suoi figli Roberto e Clara, dodici e otto anni. Questa è la risposta, documentata, di Matteo Marani, bolognese, giornalista e storico appassionato. Tre anni di ricerca scrupolosa e insieme ossessiva, perché gli pareva di inseguire un fantasma. Dallo scudetto ad Auschwitz ricostruisce in modo pertinente la storia di Arpad Weisz, vincitore di quattro scudetti tra il 1930 e 1938.
Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre, fra le ultime testimoni della Shoah di Emanuela Zuccalà
Abitare, per un anno, nella città artificiale del male assoluto. Lavorare, da adolescente, a un minuto ingranaggio della sterminata fabbrica della morte. Portare inciso sul braccio sinistro, ancora dopo sessant’anni, il numero-simbolo della malvagità umana ed essere qui a raccontarlo. Esprimendo, contemporaneamente, un inesauribile amore per la vita. La storia di Liliana Segre sorprende, indigna e riconcilia. Bambina ad Auschwitz nel 1944, deportata perché ebrea, oggi è una delle ultime testimoni della Shoah, fra le poche a riuscire ancora a rivivere davanti a una platea – in genere di giovani e di studenti – una simile tragedia personale e collettiva. Un tessuto di coincidenze ed eventi quasi romanzeschi l’ha condotta indenne – nello spirito, oltre che nel corpo – fuori dai cancelli del campo di sterminio. Liliana Segre è testimone pubblica della Shoah dal 1990: in questo libro, per la prima volta, racconta se stessa in profondità, le ragioni più intime che l’hanno spinta a condividere il suo dramma privato, l’assurdo ritorno alla vita dopo il viaggio nella città della morte che doveva essere di sola andata. Ma a parlare sono anche i ragazzi che l’hanno ascoltata, in un’antologia di lettere e bigliettini scritti di getto e consegnati alla nonna che è stata tredicenne ad Auschwitz.