Dunque, il dado sembra tratto: tre giorni fa il Comitato Tecnico Scientifico ha approvato il protocollo proposto dalla Federcalcio e dalla Lega di Serie A, modificato solo parzialmente per venire incontro ai rilievi mossi dallo stesso CTS sulla versione proposta in precedenza.
Di fatto, probabilmente sulla spinta di molteplici pressioni esterne, il Comitato ha raggiunto un compromesso con i vertici delle istituzioni calcistiche sui due elementi più controversi: il ritiro collettivo in isolamento per calciatori e staff, e l’obbligo di quarantena, in caso di positività al tampone, soltanto per il soggetto risultato contagiato dal Covid-19.
Sul primo punto il CTS ha accontentato il mondo del calcio, consentendo ai club di evitare la “clausura”, mentre per ora resta necessario isolare per 14 giorni tutto il “gruppo squadra” nel caso si riscontrasse un positivo al coronavirus (i giorni di isolamento dovrebbero essere invece soltanto 7 se la positività venisse riscontrata a campionato in corso).
Il Ministro dello Sport Spadafora, di conseguenza, ha dato il via libera agli allenamenti collettivi, ed ha anche annunciato che il 28 Maggio, di concerto con il Presidente della FIGC Gravina, verrà decisa la data di ripartenza per Serie A, B e Lega Pro.
Si è finalmente concluso quindi il tira e molla sulla possibilità di riprendere o meno i campionati: un dibattito infinito, onestamente stucchevole e sicuramente iniziato troppo presto, quando ancora decine di bare anonime lasciavano Bergamo sui camion dell’esercito, ed i pensieri degli italiani erano rivolti a tutt’altro.
Si torna così a giocare, dando ragione a quanti rivendicavano la necessità di far ripartire un’industria che fattura quasi 5 miliardi di euro, dandone 1,2 al Fisco (fonte: ilsole24ore.com, 10/12/19).
Peccato, però, che chi ripete incessantemente lo slogan “ripartono tutte le industrie, deve ripartire anche il calcio”, dimentichi un piccolo particolare: il mondo del pallone, quando questo riprenderà a rotolare, sarà l’unico “comparto industriale” che non rispetterà la regola-base di tutti i protocolli che disciplinano le attività in questo periodo, ovvero il distanziamento sociale.
Il calcio, così come tutti gli altri sport di contatto, non può infatti esistere senza i contrasti, le marcature, gli assembramenti in area di rigore in occasioni di corner e punizioni, e in quest’ottica fa ancora più sorridere il divieto di stringersi la mano prima della partita o di abbracciarsi dopo un gol: una presa per i fondelli travestita da misura di prevenzione.
In tal senso aveva dunque fondamento la richiesta del CTS, che proponeva di “isolare” il mondo del calcio per evitare che i contagi, impossibili da controllare nel contesto degli allenamenti e delle partite, fossero portati nel “mondo esterno” in occasione del ritorno alle rispettive case di calciatori, allenatori e preparatori atletici (e viceversa, ovviamente).
Del resto, se l’industria sportiva per eccellenza, ovvero l’NBA, sta programmando la propria ripartenza attraverso la chiusura in una vera e propria “bolla” (il parco giochi di Disneyworld a Orlando in Florida), ci sarà pure un motivo.
Allo stesso modo è assolutamente sensato l’obbligo (che per ora permane) della “quarantena di gruppo”, misura diversa da quelle richieste alle altre attività lavorative nelle quali si dovesse riscontrare un soggetto positivo: in queste attività, infatti, il distanziamento sociale dev’essere rispettato, ed il rischio di contagiarsi sul posto di lavoro è effettivamente molto più basso che su un campo di calcio.
L’accordo raggiunto è una sostanziale vittoria per i vertici del pallone, guidati dalla quasi totalità dei presidenti delle squadre di serie A, il cui unico interesse è cercare di non perdere i soldi relativi all’ultima rata dei diritti tv di questa stagione, che i broadcaster chiedono di rinegoziare ma che questi “capitani d’industria” hanno in gran parte già speso.
Persino il Presidente del Brescia Cellino, per mesi fiero oppositore della ripartenza in nome del rispetto per le vittime da Covid-19 in Lombardia, una volta saputo della sospensione dei pagamenti di Sky e DAZN ha rapidamente cambiato idea, con tanti saluti all’elaborazione del lutto.
L’unico assioma mai messo in discussione, nel corso di tutto questo dibattito, è il fatto che le partite verranno disputate a porte chiuse, sicuramente per ciò che riguarda la fine di questa stagione, e molto probabilmente ancora per chissà quanto tempo durante la prossima.
A nessuno, insomma, è venuto in mente che in piena “Fase 2”, con cinema e teatri che riapriranno i battenti a metà giugno, riaprire gli stadi, pur nel rispetto delle norme per l’ingresso contingentato ed il distanziamento sociale, sarebbe molto più semplice e sicuro che far giocare le partite stesse.
Una provocazione? Certo, ma a conti fatti non priva di una sua logica.
Inoltre, pur parlando tanto di soldi, contratti da rispettare e stipendi (milionari) da tagliare, nessuno si è ancora chiesto come e quando rimborsare le centinaia di migliaia di abbonati allo stadio delle varie squadre di Serie A, B e Lega Pro, che in nome della loro passione hanno già pagato per vedere partite alle quali non potranno assistere.
Tra l’altro non ha avuto alcun peso, nella disputa sul ripartire o meno, il fatto che a fine Aprile, a pochi giorni dall’inizio della “Fase2”, ancora 2 italiani su 3 fossero contrari alla ripresa delle partite, come emerso da un sondaggio realizzato da IZI con Comin&Partners su un campione di 1000 intervistati.
Il mondo del calcio, insomma, in tutti questi mesi così travagliati non ha mai nemmeno finto di interessarsi a coloro grazie ai quali esso stesso ha ragione di esistere, ovvero i tifosi.
Un atteggiamento deprecabile, anche solo ragionando in termini di business: quale industria prende le proprie decisioni infischiandosene altamente dei propri clienti?
Durante una scena di “Febbre a 90°”, uno dei film che meglio raccontano la passione per il calcio da parte dei tifosi, il protagonista Colin Firth ripensa ai momenti più belli vissuti sugli spalti a sostenere il “suo” Arsenal, e riflettendo su quanto sia determinante la spinta del pubblico sull’esito delle partite, si pone una domanda: “SE TU NON CI FOSSI STATO, A CHI FREGHEREBBE NIENTE DEL CALCIO?”.
Nelle prossime settimane vedremo quanto fregherà alla gente di guardare alla tv tante partite in stadi desolatamente vuoti, ma la certezza venuta fuori in questi mesi, al di là della retorica sulla necessità di “dare sollievo in un momento difficile,” è che al calcio non frega niente della “sua” gente.