Premessa: del grande pianista americano Bill Evans ha già scritto tutto il Maestro Enrico Pieranunzi con il suo libro “Bill Evans – ritratto di artista con pianoforte” per l’etichetta Jazz People, per cui il presente articolo si limiterà ad evidenziare, o almeno proverà a farlo, qualche aspetto dello stile pianistico evansiano e della perfetta fusione tra espressione ed estetica che nel periodo tra il 1960 e il 1980 ne determinò il grande successo presso tutti gli appassionati di jazz. Ora, ciò che in modo particolare distingue il jazz dalla musica europea è la formazione del suono. In parole povere la differenza è che in un’orchestra sinfonica gli orchestrali si sforzeranno di eseguire i loro passaggi nel modo più omogeneo possibile, venendo incontro ad un ideale di suono “bello” e caratterizzato da spiccati aspetti estetici, mentre per il musicista di jazz non è importante adeguarsi ad un immagine sonora ricercata ma piuttosto fare riferimento a criteri di suono più espressivi ed emozionali possibile. Quindi nel jazz l’espressione e l’emozione hanno nettamente la precedenza sull’estetica. Per esempio nel jazz non esistono “bel canto” o sdolcinate sviolinate ma suoni duri e puri: la voce umana ad esempio è piena di lamenti, pianto e dolore e gli strumenti sono espressivi e mai filtrati da limitazioni sonore di alcun tipo. Se ne deduce che ciò che suona un musicista di jazz è sempre più “vero” di ciò che può suonare un musicista europeo medio.
Ciò nonostante quando Bill Evans emerse dalla scena jazzistica degli anni ’50 la sua musica era qualcosa di nuovo, innervata com’era dai suoi studi del repertorio classico europeo, il suo sound era ricco di colore ma anche calore e la sua concezione personale era talmente forte che ogni volta che interpretava una canzone era come se ne desse la versione definitiva. Ma Bill si era allo stesso modo duramente applicato allo studio del linguaggio strettamente jazzistico del pianoforte e in pochi anni entrò in possesso di una tecnica stupefacente sullo strumento, riuscendo addirittura ad ottenere grande equilibrio e controllo sul fraseggio stesso. Lirismo e senso melodico uscivano da lui come se si stesse esprimendo con parole e frasi assolutamente compiute. Operò preferibilmente all’interno di limiti ben definiti usando la forma “song” della canzone popolare e si mosse tra materiali attinti ora ai musical di Broadway, ora alle canzoni commerciali di Tin Pan Alley, ora ancora ai temi da film. Non fu attratto dall’avanguardia, benché avesse tranquillamente i mezzi per esplorare anche quel territorio, e nemmeno fu tentato di inseguire le tendenze del business musicale più appetibile allo scopo di rendersi maggiormente vendibile come artista. Possiamo dunque avere il privilegio di ascoltare Bill Evans dall’inizio della sua carriera fino alla fine con un senso di continuità, dove è possibile cogliere chiaramente lo sviluppo di una sempre più compiuta espressione della sua inimitabile arte, e dove è possibile avere prova tangibile del riuscitissimo connubio da lui operato tra espressione ed estetica nel jazz. Lo si potrebbe definire uno “Chopin del moderno piano jazz”.
La sua maestria nel far risuonare il pianoforte non aveva eguali nel jazz e lo avvicinava da un punto di vista sonoro ad un artista come Rubinstein. Non ci si stupisce quindi che una fusione così perfetta di elementi eterogenei sfociasse poi in un successo anche commerciale oltre che di critica, come per esempio per la produzione del Bill Evans trio con Scott La Faro al contrabbasso e Paul Motian alla batteria. Va da se ovviamente che un simile talento del pianoforte jazz facesse via via sempre più proseliti in America come in Europa, persino nella ristretta cerchia dei pianisti dell’hard bop pur avendo uno stile pianistico completamente diverso da quello dei musicisti di quella scuola. Eredi diretti del pianismo evansiano negli Stati Uniti attualmente sono ancora Keith Jarrett, Lyle Mays e Brad Mehldau che coniugano romanticismo e tensione moderna, oltre ovvia-mente a possedere una strepitosa tecnica sullo strumento. In Europa sono emersi molti pianisti della scuderia ECM (prima grande etichetta europea a sostenere il jazz di matrice europea), oltre al tedesco Joachim Kuhn e al bulgaro Milcho Leviev. In Italia Enrico Pieranunzi, Stefano Bollani, Danilo Rea, Rita Marcotulli, Stefania Tallini ed Elisabetta Serio sono tra i pianisti che tuttora coniugano la lezione evansiana tra espressione ed estetica, mentre su Napoli e dintorni sicuramente gli otto pianisti che si esibiranno stasera ore 20,30 presso il Complesso Monumentale di S.Lorenzo Maggiore per la rassegna “Otto pianisti in cerca d’autore” a cura di Napoli jazz winter 2018, ovvero Bruno Persico, Dino Massa, Armanda Desidery, Mimmo Napolitano, Lorenzo Hengeller, Giosi Cincotti, Sergio Esposito e Sergio Forlani proponendo brani di loro composizione, non sono da meno dei colleghi italiani sopra citati nel proprio impegno per la diffusione, sia pure con progetti e stili differenti, del discorso evansiano tra emozione e romanticismo. Buon ascolto a tutti.