Il 10 settembre ci lascia Ernesto Franco, direttore generale di Einaudi e scrittore. Aveva 68 anni e da tempo era malato di tumore.
Alla guida della casa editrice dal 1998, è stato l’artefice del rilancio della collana simbolo di Einaudi, Gli Struzzi. Ispanista, aveva tradotto dallo spagnolo autori come Alvaro Mutis, Borges e Octavio Paz, di cui ha curato un Meridiano che uscirà postumo.
Diventato direttore editoriale, Franco ha rilanciato la narrativa straniera, con autori fra i quali spiccano i Premi Nobel Saramago, Pamuk, Coetzee, Munro, Modiano, Javier Marías e Philip Roth. A lui si deve anche la creazione di due collane di saggistica: Einaudi Contemporanea e le Vele, inaugurate nel 2003 da un dialogo tra il cardinal Martini e Gustavo Zagrebelsky.
Raffinato e colto signore dell’editoria, ha curato nel 2007 l’Antologia della letteratura fantastica con testi tra l’altro di Borges e Silvina Ocampo. Con Vite senza fine nel 1999 ha vinto il Premio Viareggio.
Ricordiamo i suoi scritti.
Isolario
Due esploratori stremati si incontrano e si guardano l’uno come un miraggio dell’altro, ai margini di un deserto prossimi ad uscire di scena. Non conoscono il contenuto del messaggio che portano nelle proprie bisacce, non sanno che all’uno come all’altro è toccato il medesimo compito: verificare sul campo che quanto sta scritto corrisponda ad esattezza e verità. E’ questo l’inizio del libro: il seguito sta nelle pagine del manoscritto, una descrizione di isole e di comete. L’inizio è a chiave, evidentemenete e non solo per il tutt’altro che scontato emergere dell’avventuroso isolario. A chiave perché subito si svela il principio che regge l’intero racconto, lo sdoppiamento, il doppio vedere e scrivere, sapere e raccontare. Siamo di fronte a un romanzo di smentite, sovrapposizioni, disincanti. Un romanzo autobiografico. Che narra dei possibili tratti di un letterato dei nostri anni. Un testo affidato agli estri, e alle contrazioni e delusioni, di un autore che come Franco sappiamo uomo di isole culturali e di configurazioni editoriali, cioè, di visioni a filo di terra e di osservazioni a occhi all’in su.
Storie fantastiche di isole vere
Isole contese, abbandonate, conquistate e riconquistate, vendute e amate, incantate e stregate, plasmate dal vento che le abbraccia e le sferza, luoghi dell’origine e dell’utopia, inaccessibili, invisibili, isole che non sono isole, appena affioranti, quasi penisole: da Cipro ad Alcatraz, da Tortuga alle Galápagos, quando parliamo di isole – secondo il narratore di questo libro – parliamo di profezie, messaggi in bottiglia affidati alle acque. Che cosa vogliono comunicarci, le isole, con la loro presunzione di pensarsi come centro del mondo, di credere che tutto giri attorno a loro, come in realtà fanno solo le correnti e i pesci? La cosa piú difficile di fronte a un’isola è semplicemente leggerla, capire quale lingua parla e quale inesauribile racconto mormora il mare frangendosi sugli scogli. Storie fantastiche di isole vere descrive l’incontro di due personaggi. Il primo è un narratore, il Pilota, un marinaio che ha navigato su ogni rotta ed è sbarcato in ogni porto, e possiede perciò la saggezza dell’esperienza, quella vera, che si deposita lentamente nel corso di una vita. Sorseggiando un bicchiere di vino Pigato o di rum, fumando una delle sue sigarette papier maïs, pescando nella baia a bordo di una lampara o osservando il mare dall’alto della collina, con il suo affabulare ipnotico e avvolgente il Pilota irretisce chi lo ascolta, lo piglia all’amo, lo cattura, iniziandolo all’insulomania, il culto, o malattia, degli ultimi discendenti di Atlantide. Il secondo personaggio si limita per lo piú ad accogliere e raccogliere i racconti dell’altro, ma senza chi ascolta non esisterebbe chi narra, senza lettore non ci sarebbe scrittore. Il porto in cui i due si trovano è quello di Genova, dove «quando vedi una nave enorme sfilare piano in fondo alle vie, ti chiedi se sta salpando lei o se sta salpando la città»; il molo su cui passeggiano è «una rampa verso l’ignoto, una macchina della fantasia: se non salpi con una nave, lo fai con il desiderio o con i ricordi». E il testo che compongono insieme è un isolario, ovvero un libro anfibio, per metà vero e per metà fantastico: un inno al mistero e all’inquieta bellezza delle isole, e quindi all’arte del racconto, e all’oceano delle storie.
Donna cometa
È come se i tuoi passi avessero un pensiero, come se sorgessi scendendo da me. Semini tempo con il gesto ampio di chi semina grano. È un canzoniere d’amore Donna cometa di Ernesto Franco, uomo e poeta costretto a fare i conti con il congedo. Congedo da un preciso referente lirico – il «tu» di queste poesie, o la donna, che come la cometa passa, illumina e finisce – ma non per questo congedo dal tempo e dal viaggio di vita e poesia, se è vero che nei 47 frammenti del libro l’io lirico segue, quasi imita per mimesi, la forma breve o brevissima del nostro «immenso camminare». Un movimento ciclico, che inesorabile trascina e assorbe con sé la perdita inaspettata, ma per accumulo di cammini comuni all’io e al «tu» diviene nel tempo elogio di una lentezza necessaria alla semina. Memore nel suo insieme più della lezione di Leopardi che di quella di Baudelaire, nel sapiente controllo del verso – quasi sempre classico e italiano, mai declinato nella direzione narrativa dell’alessandrino francese -, Franco accorda il suo linguaggio poetico soprattutto sul ritmo, un intonare il verso che più che riconfigurare il dolore lo ascolta in armonico, nel suo trascorrere e ruotare, «da più lontano dell’oblio».
Vite senza fine
Gio Magnasco alle soglie del Novecento, ancora ragazzino, gioca con un chiodo cavallottino e una rondella da quindici. È un segno del destino che lo attende e lo vedrà diventare un mago della ferramenta. Gio Magnasco è un homo faber, si porta dentro il mito della razionalità e del progresso. Ma si porta dentro anche una profonda malinconia, la sensazione di un desiderio che non potrà mai essere appagato. Come il suo amore per la figlia dell’armatore Perrone, che dura tutta una vita ma resta quasi sempre confinato tra i pensieri. Gio Magnasco connette gli opposti e li rende complementari, come chiavi e serrature, come maschi e femmine di un tassello. Per questo nel suo strano negozio si vendono viti e ganci ma anche bottoni, lacci, nastri: l’unico negozio al mondo di ferramenta-merceria. «Mi piace mettere insieme le cose, – dice. – E che ci restino».
Usodimare. Un racconto per voce sola
Pepe Usodimare è il capitano di un vecchio cargo diretto a Chittagong in Bangladesh per venire demolito. Quella nave è il riassunto della sua vita. Ne racchiude i ricordi, i desideri, la figura di una donna e un segreto mai svelato. Per riuscire a venirne a capo Usodimare ha solo il tempo dell’ultimo viaggio. Ma la rotta del vecchio cargo è piena di imprevisti, di insidie. C’è un destino da accettare, per la nave e per il marinaio.