Andrea Bazzanini, L’ultima stagione (Oligo); Fiammetta Palpati, La casa delle orfane bianche (Laurana Editore); Giulio Spagnol, Charlie palla di cannone (Mondadori); Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (TerraRossa); Samuele Cornalba, Bagai (Einaudi).
Questi i cinque finalisti della XXXI edizione del Premio letterario Giuseppe Berto, riconoscimento per opere prime di narrativa già edite.
L’opera vincitrice verrà svelata durante la cerimonia di premiazione che si svolgerà il 7 settembre a Capo Vaticano a Ricadi (Vibo Valentia), nella tenuta a strapiombo sulla Costa degli Dei eletta da Giuseppe Berto, sin dalla fine degli anni ’50, quale luogo dell’anima e del “buen retiro”.
Come da tradizione, il Premio mantiene la sua prerogativa nell’alternarsi regolarmente tra il Veneto e la Calabria: tra Mogliano Veneto (Treviso) – dove Berto nacque e dove De Cesare De Michelis lo fondò nel 1988 – e Capo Vaticano, dove lo scrittore visse gran parte della sua vita e dove oggi riposa.
L’ultima stagione. Un racconto operaio di Andrea Bazzanini
Tra storie di vita e di lavoro di operai stagionali, “L’ultima stagione” è un potente esordio narrativo che racconta la fine di uno dei tanti zuccherifici della Bassa e con essa il declino industriale della Pianura Padana. Ad accompagnare il lettore è la voce di Molinari, detto “Mulo”, uno dei tanti lavoratori che parla di un ambiente prettamente maschile, dove è possibile incontrare una grande varietà di personaggi curiosi in uno spaccato di vita vera, senza filtri ma di grande dignità: dal mancato sindacalista all’esperto di donne, dal ragazzo volenteroso che studia e lavora all’uomo privo di ambizioni che aspetta come ogni anno la chiamata stagionale dallo stabilimento, che questa volta non arriverà più.
La casa delle orfane bianche di Fiammetta Palpati
Per aiutarsi reciprocamente tre donne di mezz’età decidono di ritirarsi in una casa di paese con le rispettive anziane madri, bisognose di assistenza. La convivenza, sulla carta, è un incastro perfetto: cosa c’è di meglio della rusticità dei bei tempi andati per dividere spese, pensieri, incombenze, e magari risanare quel legame intimo tra madre e figlia, di accudimento e amore, che al momento è invertito? Ma il nido si mostra assai presto per quello che è: un covo di immaturità, risentimento, egocentrismo e disperazione che sfocia in un tragicomico delirio collettivo: la casa si rivolta contro le inquiline e il loro desiderio, soffocandole tra immondizie, un cane infido e l’odore nauseabondo di una papera guasta. La situazione precipita quando arriva nella casa, teoricamente come badante, una suora fasulla e inferma, che si piazza in poltrona e pretende d’essere servita e riverita. Lo scompiglio che ne segue getta le protagoniste nello sconforto totale finché, come in ogni dramma che si rispetti, esse saranno costrette a smascherarsi, e a dichiararsi orfane bianche.
Charlie Palla di Cannone di Giulio Spagnol
Charlie ha nove anni, è senza braccia e senza gambe ed è inchiodato a una sedia a rotelle. È esposto a ogni sorta di sevizie. E la vita è uno strazio, uno strazio che però si apre alla rivolta e alla consapevolezza. Niente di più semplice per Charlie, all’anagrafe Carlo Campo, che trasformarsi in una palla di cannone, e liberarsi dall’attrito del corpo e dell’Io. Lo aiutano, nella sua ascesi, la solitaria e depravata Alix, attrice berlinese in cerca di vendetta; il Capoclasse, tormentato enfant prodige, grassoccio e poeta; l’aristocratica Livia, suo fuoco e supplizio. Non ci sono maestre che possano fermare il progredire della ribellione, né c’è preside capace di volgere in repressione la propria indifferenza. Del resto Charlie è tutt’altro che indifeso contro il mondo: ha saputo maturare una consapevolezza filosofica che esplode in chirurgico eloquio e lo trasforma in leader di una setta di bambini discepoli. Favola folle, danza macabra, spericolata speculazione filosofica e scientifica, Charlie Palla di Cannone mette in scena l’insofferenza di anime tormentate e ribelli che hanno la faccia di ragazzini scatenati.
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol
Nella storia di Madre e di Padre ci sono degli avvenimenti che determinano un prima e un dopo. La nascita di Maggiore e poi quella di Minore, ad esempio, o l’incidente che li coinvolge, ma anche episodi apparentemente marginali dirottano le loro esistenze, come le nostre: delle mani che si sfiorano per caso e poi si trattengono appena più del dovuto, o l’apertura casuale di una chat altrui. In questo esordio luminoso e contundente, Michele Ruol ci conduce nell’intimità dei suoi personaggi attraverso le impronte lasciate sugli oggetti della casa in cui abitavano, riuscendo a farci continuamente ricredere sull’idea che ci siamo fatti su ciascuno di loro – e forse anche su quella che abbiamo di noi stessi.
Bagai di Samuele Cornalba
Elia non è molto bravo a provare sentimenti. Se ne va in giro con il pollice sulla rotella dello Zippo e dentro ha un dolore che non finisce mai. Poi arriva Camilla, che si avvicina «come se lui le dovesse una spiegazione, un posto vicino sul pullman, un po’ d’affetto». E arrivano dal passato dei segni che sono come schiaffi, o carezze. Forse dall’inquietudine e dalla provincia non ci si salva neanche con l’amore travolgente dei vent’anni; a volte, però, ci sono persone e pensieri e dettagli che possono rendere il futuro un luogo meno spaventoso. “Bagai” è l’esordio di uno scrittore nato nel 2000, ma non è un romanzo generazionale: è un urlo potentissimo. La dimostrazione che il talento non aspetta, esiste e basta.
«Bagai è lui, bagai è Andrea, bagai sono i ragazzi di Pandino, della provincia, quelli che corrono senza direzione, che scappano da un mondo incendiato».
Di cose da offrire a un ragazzo di diciott’anni, Pandino non ne ha poi molte: novemila abitanti, quindici bar, dieci parrucchieri, cinque pizzerie d’asporto, una torre dell’Enel dove s’intrecciano i graffiti d’intere generazioni, due chiese, un santuario, neanche una libreria. Elia vive da sempre nei confini di questo perimetro: la scuola, qualche festa, il migliore amico attivista che cerca invano di scuoterlo con le sue battaglie politiche, il padre che ce la mette tutta anche se non basta mai. Quando all’improvviso fa capolino nella sua vita, Camilla può sembrare un lampo di luce, ma con lui – e con la sua apatia, con il muro che anno dopo anno ha costruito tra sé e il mondo – è tutto più difficile. Perché dentro gli brucia un dolore incontrollabile, che pulsa sempre. Una sofferenza che sommerge ogni cosa, anche le poche a cui tiene davvero. Elia è uno che ferisce chi gli è vicino, inavvertitamente; vorrebbe aprirsi, ma non sa da dove iniziare. E Camilla, con le sue unghie smangiate, con il suo sguardo che è «come un’infezione», con la musica, con i libri, questo ghiaccio prova a scioglierlo: la fine della scuola però è dietro l’angolo, e subito dopo bisognerà inventarsi un futuro lontano da lì, perché in fondo nessuno «sprecherebbe tutta la vita in una merda di palude». Difficile, comunque, immaginare il dopo: «Metà di noi finirà in un’università olandese, l’altra metà a servire in un pub a Londra, che adesso esce pure dall’Europa… vabbè, facciamo Berlino». Samuele Cornalba ha poco più di vent’anni e nel suo primo romanzo ha semplicemente raccontato ciò che conosce meglio: come funziona la testa di un ragazzo nato nel 2000. Ci trascina nella storia di Elia con naturalezza, a colpi di immagini poetiche e dialoghi di un’autenticità spiazzante. Basta un attimo per specchiarci tutti, giovani o meno, nella sua scrittura. Per riconoscerci.