Generalmente, quando tra appassionati di musica e canzone si disserta sui Beatles si tende ad evidenziare a giusta ragione le straordinarie capacità compositive di John Lennon e Paul Mc Cartney. Ma George Harrison, il calmo e apparentemente quieto George Harrison, non era creativamente da meno degli altri due: perchè affermo questo? Partiamo da una premessa: chi col passare del tempo si trova ad avere successo come Beatles, Rolling Stones, Yes, Genesis, Pink Floyd, Bob Dylan, Bruce Springsteen deve necessariamente avere nel proprio Dna una componente di bastardaggine, altrimenti non sarebbe lì. Nel caso dei quattro di Liverpool il loro essere bastardi si manifestò facendo le scarpe prima a Stuart Sutcliffe (originariamente messo dagli altri tre a suonare il basso senza averne la minima capacità) a favore di Paul, e successivamente al batterista Pete Best, detronizzato a favore di Ringo Starr con l’appoggio del produttore discografico George Martin. E George Harrison?
Sin da piccolo il ragazzo evidenziò una spiccata personalità e sicurezza di se al punto da comportarsi spesso in maniera impudente, e in genere chi ostenta personalità e sicurezza di se conosce perfettamente quali siano gli obiettivi da perseguire, non importa se a discapito di chi o cosa. A fronte della grande passione per la musica e per la chitarra l’obiettivo di George divenne chiaramente quello di essere un musicista di grande successo, ancor meglio se anche commerciale. E George mostrò ancor più sfrontatezza quella sera di fine anni 50 a Liverpool quando,chitarre a tracolla, sull’ultimo bus per Woolton che li riportava alle rispettive case Paul disse a George: “Dai George, fagli sentire Raunchy”(a John). Detto fatto: erano nati i BEATLES. Del resto sin dai primi tempi caratterizzati dal grande successo planetario George dimostrò grande disinvoltura sia in conferenza stampa, dove prendeva la parola e a volte la teneva più di John Paul e Ringo, sia ovviamente sul palco eseguendo da cantante solista qualche vecchio brano rock and roll. E’ chiaro che gran parte della scena con brani di propria composizione gliela rubavano a giusta ragione John e Paul ma fin dal 1966 con l’album “Revolver” fu chiaro a tutti che la vena compositiva di George si era ormai sbloccata, un po come un processo di ritenzione creativa interiore tenuta a freno per troppo tempo e uscita finalmente fuori all’attenzione di pubblico e critica. “Taxman” per esempio coniuga musicalmente uno scarno ma eccellente approccio rock con un testo di natura sociale a difesa del cittadino medio inglese tartassato dalle tasse a favore della Corona Reale. In “Love you too” è ormai chiara la svolta trascendentale indiana di George, con sonorità tipicamente orientali generate da tabla(uno strumento percussivo locale) ma soprattutto dal sitar, il cui mellifluo suono si era già ascoltato l’anno prima in “Norwegian wood” di John, da “Rubber soul”. “It’s all too much” da “Magical Mystery Tour” del 1967 risente abbastanza del momento Lsd di tutto il gruppo e passa inosservato ma il 1968 è l’anno del White Album doppio con il gioiello di George “While my guitar gently weeps”, a detta di tutti la migliore canzone dell’album dove, sempre secondo autorevoli pareri, almeno la metà delle canzoni presenti in esso avrebbero potuto essere tranquillamente cestinate. Ed eccoci al 1969 e ad “Abbey road”, il capolavoro dei quattro di Liverpool dove tre brani si staccano da tutti gli altri: la suite finale “Golden slumbers” di Paul e i due punti più alti della produzione di George: “Something”, splendida canzone d’amore ripresa da tutti i maggiori artisti mondiali nei loro dischi, e “Here comes the sun”, struggente ballata acustica inneggiante alla vita e all’amore.
Ma nel contempo alcuni accadimenti segnano la vita di George Harrison; come detto nel 1966 inizia la fase trascendentale meditativa che però associata all’uso di svariati tipi di droghe lo porta a staccarsi progressivamente dagli aspetti materiali dell’esistenza, e tutto ciò lo porterà alla separazione dalla moglie Patti Boyd, con colpevole partecipazione da parte di Eric Clapton che nel frattempo aveva intrecciato una relazione con la donna, cosa che ferì moltissimo George e che ne peggiorò molto il carattere accentuandone l’irascibilità. Nel 1970 i Beatles si separano e se al momento i quattro prendono la cosa come una liberazione dai dissidi interni alla band e dalle pressioni di media e pubblico, col passare del tempo la mancanza degli amici di una vita si fa sentire, come per gli altri tre. La folle mondanità e il ricorso agli stupefacenti prendono il sopravvento nella vita di George e la sua produzione discografica subisce un’inevitabile battuta d’arresto. Ma l’incontro nel 1974 con la futura moglie, l’artista messicana Olivia Arias, si rivela decisivo per la sua stabilità personale e per un graduale ritorno a quella pacatezza che lo aveva contraddistin-to nei primi anni del fenomeno Beatles, nonché alle sue attività artistiche preferite: fare musica in proprio e produrre nuovi progetti cinematografici, come nel caso dei Monthy Pyton. La vita di George era quindi ritornata alla normalità quotidiana, sia pure condita dalle consuete scappatelle erotiche, poi il manifestarsi della malattia poco dopo la messa a punto di “Beatles Anthology” (uscito nel 1996 in cassetta audio, cd e dvd), l’aggressione subita a casa sua nel 1999 da parte di un pazzo mitomane durante la malattia, la recrudescenza di essa e la scomparsa del “quiet one” dei Beatles nel 2001 fanno parte della cronaca, sia pure dolorosissima specie per chi come me ha amato e amerà sempre i quattro ragazzi di Liverpool che cambiarono radicalmente il mondo musicale e non di tutti noi. Grazie ancora di tutto George e…Peace and Love.