La morte di George Floyd, cittadino americano di Minneapolis in Minnesota, avvenuta il 25 maggio scorso, dopo un fermo della Polizia, a seguito della brutalità delle violenze gratuite subite per l’arresto -dovuto all’utilizzo di una presunta banconota da 20 dollari contraffatta per acquistare delle sigarette, accusa poi rivelatasi infondata – sta travolgendo il mondo intero in ondate di protesta ed indignazione.
La dinamica della sua uccisione, ripresa a più mani da cellulari di passanti ignari per l’epilogo tragico di quello che stava accadendo, descrive la successione di pochi minuti di follia da parte di quattro agenti della polizia che, alle prese con l’arresto del presunto malvivente, hanno messo in atto una serie di comportamenti illegittimi, oltraggiosi, violenti, nonchè illegali, fino a determinarne la morte, dopo che uno di essi ha tenuto fermo il suo ginocchio al collo del malcapitato, togliendogli il respiro per ben 8 minuti e 46 secondi, di cui gli ultimi 3 con il povero George già incosciente e privo di sensi.
L’arrivo dell’ambulanza, allertata pochi minuti dopo, non ha potuto che constatarne il decesso.
La notizia sconvolge per due ordini di motivi: siamo in America, o meglio, negli Stati Uniti, la terra delle libertà, della giustizia, delle uguaglianze sociali, della proclamazione a voce alta di tutti i diritti (???) e siamo nel 2020, dopo papiri e papiri di diritti proclamati e scritti, con gli agenti di polizia che, anziché proteggere le città, trattano un uomo disarmato e impotente come un incallito criminale a cui applicare la pena capitale senza il benché minimo processo né l’ombra di una sentenza di condanna.
Anche se il reato fosse stato commesso, non sarebbe stata, di certo, questa la condanna inflitta dalla Corte, né è giustificabile condannare a vita una persona per il suo passato colpevole (nel 2009 George era stato condannato per rapina mano armata).
Sembra più l’ambientazione di Delitto e Castigo che dello Stato firmatario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
L’immagine di George Floyd e il video drammatico degli ultimi istanti di vita hanno, ormai, fatto il giro del mondo, dal giorno dopo l’accaduto, in un vertiginoso crescendo di intolleranza per quello che è successo, di disgusto per il susseguirsi dei fatti, di spavento per la pochezza umana, di incredulità per la terra in cui ciò è avvenuto.
La sua foto, pubblicata ovunque, che cosa ci trasmette? La spaventosa idea che il colore della pelle conti ancora qualcosa o non conti proprio nulla! Come se non fosse trascorso il tempo, come se le guerre per i diritti conquistati non contassero nulla, come se le lotte per la libertà svanissero nel nulla, in un sol colpo come uno sbuffo di vapore.
L’indignazione è ormai diffusissima, ha contaminato e travolto, con la sua energia, le anime di tutti, dalla gente comune ai politici, dai rappresentati dello spettacolo ai cantanti. Uno fra tutti, Paul Mc Cartney ha ricordato quando i Beatles rifiutarono di fare un concerto in Florida, a Jacksonville, perchè la sala si sarebbe presentata divisa, da una parte in bianchi e dall’altra i neri. E i Fab Four non ritennero tale concerto una cosa giusta “Ci sembrava buonsenso” – dichiara l’ex beatle.
Era il 1964, esisteva ancora la segregazione razziale e la divisione in società. Eppure i promotori del concerto dovettero scendere a patti con la Band e superare le barriere razziali, tanto che il concerto fu tenuto, per tutti, senza alcuna separazione, nello stadio di football locale.
La sua dichiarazione nel post pubblicato sui suoi social: “Mi fa arrabbiare che nonostante siano passati sessant’anni il mondo debba finire sotto shock per le orribili immagini dell’assurda morte di George Floyd per mano del razzismo della polizia. Tutti noi supportiamo e stiamo al fianco di chi sta protestando per far sentire la propria voce in questo momento. Voglio giustizia per la famiglia di George Floyd. Voglio giustizia per tutti quelli che sono morti e hanno sofferto. Restare in silenzio non è possibile“.
Nel mondo, in questi giorni, si sono succedute una dopo l’altra proteste, manifestazioni, cortei antirazzismo, in difesa della diversità con un gesto simbolico che il rivale di Trump per le prossime elezioni presidenziali, volte ad occupare la Casa Bianca, ha deciso di rappresentare, abbracciando la protesta, in una foto emblematica: tutti in ginocchio. Tutti, in ginocchio, in segno di rispetto, questa volta, nei confronti di una vittima innocente di un sistema violento, obsoleto e impregnato di logiche razziste e discriminatorie; tutti in ginocchio, in segno di protesta, questa volta, nei confronti di un gesto odioso e ripugnante messo in atto da chi avrebbe dovuto proteggere e, invece, ha ucciso!
Peraltro, dall’autopsia, Floyd è uscito, addirittura, positivo al Covid-19…chissà quale sarebbe stato il suo destino in piena pandemia americana.
Non lo sapremo mai, nè lui potrà mai più raccontare a nessuno, ai suoi figli, ai suoi cari, ai suoi amici, cosa avrebbe fatto della sua vita dopo il Coronavirus, perchè il destino beffardo gli ha rubato il fiato prima ancora che lui potesse chiedere aiuto, anzi proprio mentre lui chiedeva pietà e aria, semplicemente aria ai suoi aguzzini spietati e noncuranti della sua libertà e del valore della sua vita, in spregio alla famosa fiaccola dal fuoco eterno che una Statua imperante mostra fiera e orgogliosa al mondo intero, come un trofeo, una conquista, un valore essenziale, dimentico dei fatti, della realtà, della crudeltà di gesti umani, della follia istantanea di menti disturbate, apparentemente sane, in un Green Book sempiterno e, per nulla, dimenticato o strappato nelle sue odiose pagine che dettavano le regole di vita, con spazi dedicati ai bianchi e spazi dedicati ai neri.