L’ 11 aprile è morto, dopo una lunga malattia, a 74 anni lo scrittore israeliano Meir Shalev, molto noto e amato in Italia.
Shalev era nato a Nahalal in Galilea, nel nord del Paese, il 29 luglio del 1948, lo stesso anno della nascita di Israele.
Figlio del poeta Yitzchak Shalev, ha iniziato la propria carriera come presentatore di sketch comici alla televisione ed alla radio.
È stato autore anche di libri per bambini e di saggi. Per molti anni ha avuto una rubrica settimanale nell’edizione del fine settimana del quotidiano Yediot Ahronot. La rubrica era un commento satirico alla politica del governo e alla situazione della popolazione israeliana.
La montagna blu
Tre ebrei ucraini stabiliscono un insediamento nella valle di Jerzeel, nella Palestina dei primi del Novecento, quando ancora lo stato di Israele non esisteva. Accompagnati da un’affascinante fanciulla, i tre creano una piccola comunità d’ispirazione socialista, destinata ad allargarsi in seguito a matrimoni e nascite. Le vite dei padri fondatori e dei loro discendenti si dipanano così attraverso tre generazioni, raccontate da Baruch, bambino e poi adulto un po’ strambo, in uno stile denso di suggestioni e venato di umorismo ebraico.
Per amore di una donna
Nevicò quel giorno, il 6 febbraio 1950, nella fertile valle di Iezreel, e Moshe Rabinovich si scagliò furiosamente con l’ascia contro un eucalipto secolare, un simbolo per tutti gli abitanti del villaggio, ma per lui soprattutto un mezzo attraverso cui si sarebbe attuato un tragico destino. Da questo episodio epocale per la memoria della piccola comunità, si diparte il lungo racconto di Zayde, il protagonista – ragazzino e poi uomo – che accompagna il lettore in un suggestivo viaggio sul filo dei ricordi. Al centro della storia è Yehudit, madre di Zayde, una donna forte e indipendente, custode di una sofferenza viscerale e di un lacerante segreto. Tre figure maschili si alternano sulla scena: sono gli uomini, diversissimi tra loro, che si contendono l’amore di Yehudit e la paternità di Zayde, occupandosene generosamente a modo proprio e secondo i propri mezzi. Mescolando voci ed episodi, passato e presente, Zayde ricrea una fitta trama di rapporti personali, di fatti che si intersecano per arrivare a ricostruire un mosaico esistenziale collettivo al cui centro campeggia il mistero di Yehudit, sfuggente e inarrivabile. Dominata dall’idea di un destino ineluttabile che grava su tutti “smisurato e indifferente”, la narrazione procede secondo un ritmo pacato, scandito dai suoni, dai profumi – indimenticabili quelli delle prelibate cene che Yaakov, uno dei padri, prepara a Zayde – e dagli eventi di un microcosmo rurale che assurge a emblema universale.
Fontanella
Mikhael Yofe, padre di due gemelli poeticamente folli e infelice figlio di una pazza vegetariana, racconta la sua vicenda di unico individuo sano in un gruppo famigliare i cui membri, quando emettono del liquido vitale – sangue, seme, o latte materno – non sanno più ricordare. Sano per modo di dire, visto che la sua particolare sensibilità verso il mondo è dovuta alla sua fontanella, quel buchetto che tutti hanno nel cranio alla nascita e che a lui è rimasto inspiegabilmente aperto anche da adulto. Grazie a quest’occhio privilegiato, che capta profumi e ricordi, passato e futuro, desideri e tormenti, Mikhael riesce a essere testimone e protagonista di una saga i cui confini cronologici e spaziali si stemperano rivestendo la realtà di poesia.
Il pane di Sarah
Alla fine degli anni Venti, la famiglia di un panettiere ebreo si insedia in una vallata ad ovest di Gerusalemme. Qui inizia il racconto di Esaù che ripercorre l’epopea della propria famiglia, un’avventura umana in cui personaggi immaginari e mitici si alternano a personaggi reali. I ricordi e le parole di Esaù rappresentano un’umanità eterogenea e in continua evoluzione malgrado il fortissimo legame alle origini: Sara, figlia di convertiti russi, madre coraggiosa, primitiva e appassionata; Abramo, il capostipite, fiero della sua discendenza sefardita; Giacobbe, gemello del protagonista e suo rivale nella gara per la conquista dell’amore della madre.
La casa delle grandi donne
Unico maschio della famiglia ad aver raggiunto i cinquantadue anni, Rafael vive nel Negev e per lavoro sorveglia la preziosa rete di canali di irrigazione. Sentendo vicina la fine, cerca la solitudine e, nella cornice afosa e solo apparentemente vuota del deserto, immagina di narrare alla sorella la sua storia che è anche l’epopea della loro famiglia. La sua esistenza, infatti, è trascorsa all’ombra di cinque donne tanto deliziosamente incombenti e inseparabili da apparire con un unico essere totalizzante. La mamma, la nonna, due zie e la sorella diventano la Grande Madre che ha allevato, accarezzato e nutrito Rafael, e di cui lui racconta con ironia, dolcezza e nostalgia le virtù e soprattutto le debolezze.
Il ragazzo e la colomba
Sullo sfondo tormentato della storia di Israele, Yair Mendelson inizia a tessere la sua vicenda, dal momento magico in cui è nato fino a quando realizza il sogno di costruirsi una nuova casa con la donna che ama. Il suo racconto si intreccia con la meravigliosa storia d’amore tra due quattordicenni che condividono la passione per i piccioni viaggiatori, che nutrirà negli anni il loro rapporto, nonostante le distanze e le difficoltà. E se la prima lettera tra i due è solo l’inizio di una grande avventura, la colomba che spicca il volo dal campo di battaglia portando un’ultima irripetibile missiva è qualcosa che non ha precedenti né nella storia del volo, né in quella della letteratura. È la dimostrazione che l’amore sa volare al di là di tutto: dell’odio, dei confini, del tempo.
È andata così
“È andata così” dice il titolo dell’ultimo romanzo di Meir Shalev, narratore israeliano dalla straordinaria vena poetica e ironica al tempo stesso. Se le sue storie sono sempre un po’ sospese fra verità e fantasia, fra passato reale e libertà dell’immaginazione, questa volta non c’è equivoco di sorta. Shalev ci racconta la storia della sua famiglia, che è stata, negli anni venti del secolo scorso, tra i fondatori di Nahalal, un villaggio agricolo nel nord d’Israele. Quasi il simbolo stesso del ritorno del popolo ebraico alla terra, intesa come ideale di riscatto storico ma anche come suolo, da coltivare con le mani e con il cuore. Shalev è infatti uno scrittore profondamente “campestre”: anche nei suoi romanzi più cittadini si sente il profumo della terra.Qui il personaggio centrale è la nonna, che è maniaca della pulizia. La sua ossessione, affrontata con affetto e sarcasmo in ugual misura, innesca i ricordi. Shalev torna a Nahalal, rievoca l’amore dei suoi genitori, le gioie e i dolori della propria famiglia. Lo fa con il consueto, straordinario garbo letterario, creando situazioni sempre in bilico fra il verosimile e l’impossibile. Che però qui ci dice essere tutto frutto della realtà, della vita vissuta.
Due vendette
In una buia e piovosa notte del 1930 un giovane contadino della terra d’Israele muore per un suicidio che tale non è, una giovane donna si addormenta per disperazione, un paio di stivali fatti da un ciabattino di Costantinopoli cambia proprietario, una vendetta si consuma.E altre seguiranno, in una catena di eventi, storie e sentimenti che molti anni dopo di allora toccherà a Ruta Taburi raccontare con uno straordinario miscuglio di ironia e malinconia, dolore e leggerezza. Lei è la nipote di nonno Zeev, il capostipite della famiglia nonché protagonista di questa vicenda piena di colpi di scena, di odio e amore, nostalgia e disperazione. Lui arriva dai monti della Galilea a deporre la prima pietra del paese – basalto nero e tenace: e tutto comincia con un toro smisurato che tira un carretto dove ci sono un fucile, una vacca, un albero e una moglie.Di questo è fatta la storia, e di tanto altro, come dice Ruta, che ne è l’indimenticabile voce narrante e la custode fedele: “di amori e odii e nascite e morti e vendette, e famiglie – papà e mamma, fratello e sorella, marito e moglie, nipoti e pronipoti”.Elena Loewenthal
Il mio giardino selvatico
Meir Shalev scrive del suo giardino nella valle di Jezreel, dove ha nutrito alberi e piante selvatici, sparso semi e bulbi di ciclamino, anemone, narciso, croco, papavero e molti altri fiori di campo, e dove conversa con i veri proprietari del luogo: uccelli, ricci, farfalle, cinghiali, serpenti e altri amici. Nessuno di loro sa di vivere in Terra Santa, luogo sacro alle tre religioni che si sono combattute per centinaia di anni. Con amore e umorismo Shalev racconta dei colori, delle fragranze e dei suoni che danno vita al suo giardino, delle stagioni mutevoli e dei tempi che cambiano, dei suoi pensieri su germinazione, essiccazione, piantagione, fioritura e diserbo. Questo libro non è però un manuale di botanica o di giardinaggio.È una raccolta di impressioni su un modesto giardino selvatico e su un giardiniere che se ne occupa perché da uomo maturo si è trovato un nuovo passatempo, e forse anche un nuovo amore.