Il Premio Bagutta è il più antico premio italiano. È stato istituito nel 1926, nella storica trattoria toscana di via Bagutta a Milano. Scoperta dallo scrittore Riccardo Bacchelli e il critico cinematografico Adolfo Franci, la trattoria si trasformò presto in un punto di ritrovo degli intellettuali milanesi. Durante una cena, gli undici presenti decisero di istituire un premio letterario e di autoeleggersi a giuria. Si decise che ogni 14 gennaio sarebbe stato scelto il libro più bello scritto da un autore italiano nell’anno appena conclusosi.
Il gruppo di intellettuali eterogeneo e intraprendente fu costretto a bloccare l’assegnazione del premio tra il 1937 e il 1946, per evitare eventuali ripercussioni dal regime fascista.
Dal 2005, presidente del premio è la scrittrice Isabella Bossi Fedrigotti.
Gianni Biondillo è il vincitore del 98/o premio Bagutta con ‘Quello che noi non siamo’. Biondillo è noto ai lettori soprattutto per la fortunata serie dei romanzi noir con protagonista l’ispettore Ferraro. In questo caso, però, l’autore si è ricordato della sua laurea al Politecnico di Milano per mettere in scena il mondo degli architetti durante il ventennio fascista.
Il premio per l’opera prima è andato invece alla vicentina Giulia Scomazzon, autrice di ‘La paura ferisce come un coltello arrugginito’, edito da Nottetempo; un coraggioso memoir in cui la scrittrice ricostruisce le dolorose fasi che negli anni Novanta hanno portato alla morte della madre, tra le prime vittime dell’AIDS.
Gianni Biondillo ci regala un racconto corale di uomini e donne che presero coscienza del crollo delle false ideologie e che decisero di schierarsi nel nome della Resistenza e della libertà, spesso pagandone le conseguenze.
Ci fu una generazione di architetti che credette nel fascismo perché si illudeva fosse una rivoluzione, come quella artistica che propugnavano: il razionalismo. Combatterono una guerra ad armi impari contro l’accademismo, centralista e romano, senza rendersi conto che mentre Mussolini li ammansiva, li lodava, in realtà sosteneva un’architettura retorica ben più consona alle sue megalomanie. Milano fu la fucina di queste tensioni artistiche che guardavano all’Europa come a una liberazione dall’asfissiante passatismo provinciale del resto della nazione. Venivano da tutta Italia: irredentisti istriani come Pagano, maestri comacini come Terragni, napoletani inquieti come Persico. E poi tutti gli altri, figli del Politecnico: Figini, Pollini, Bottoni, Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers… Nelle trattorie, nei salotti, alle vernici, incrociavano poeti, galleristi, critici, artisti, e di anno in anno l’adesione al regime si faceva sempre più labile, sempre più critica. Ci pensò la Storia a fare il resto: dalle leggi razziali alla disfatta di Russia, fino al cataclisma dell’8 settembre 1943. Gianni Biondillo racconta, in un romanzo corale, la storia di uomini e donne che presero coscienza del crollo delle false ideologie e che decisero di schierarsi nel nome della Resistenza e della libertà, spesso pagandone le conseguenze: carcerazioni, torture, campi di concentramento. Il ritratto profondo di un’epoca, che ci somiglia più di quanto vogliamo ammettere.
La paura ferisce come un coltello arrugginito di Giulia Scomazzon
Roberta e Giulia: madre e figlia, separate per sempre nel 1995 da un male terribile e ancora senza terapie efficaci come l’AIDS. Giulia allora ha otto anni, e a lungo la vera causa della morte di Roberta le verrà tenuta nascosta: la nonna e il padre temono infatti lo stigma con cui la società dell’epoca condanna la malattia e le migliaia di persone che la contrassero perché furono, spesso solo per un periodo della loro vita, “tossicodipendenti”. Ma la reticenza e la finzione si fanno sempre più insostenibili ed ecco che, con ostinazione e per intima necessità, Giulia ormai adulta decide di lavorare sulla memoria individuale e collettiva, sulla sua storia che è anche la storia dimenticata di tante altre persone. Vuole restituire un’immagine veritiera e completa di Roberta, donna affettuosa e gentile, operaia in fabbrica, amorevole preparatrice di torte, morta di un male non nominabile. A completare la figura sfocata della madre, che Giulia ricerca avidamente nelle fotografie di famiglia, viene chiamato anche Andrea, il padre che per tutta la vita ha tentato a suo modo di proteggerla tenendola distante da un passato troppo doloroso.
In questo memoir lucido, tagliente e intenso, Giulia Scomazzon pone a se stessa e al lettore la domanda più difficile: come si supera la paura del passato e dell’assenza? E come si affrontano i modi imprevedibili attraverso cui il lutto si muove su di noi?