Nel Museo di Capodimonte si può osservare uno dei dipinti più evocativi dell’Umanesimo rinascimentale, e in particolare degli studi sulla matematica e la geometria che furono centro di interesse per le principali corte italiane del Quattrocento, ossia il Ritratto di Luca Pacioli. Sul tavolo sono sparpagliati una spugnetta, un gessetto, una squadra, un calamaio con astuccio, un compasso, il cartiglio con una mosca, un testo di matematica, mantenuto chiuso dal peso di un dodecaedro in legno, mentre un rombicubottaedro, fatto di cristallo, a ventisei facce, e riempito per metà d’acqua, scende sospeso dall’alto mediante un filo non perfettamente in asse. Al centro della tela, invece, si erge il monaco matematico Luca Pacioli, ritratto incappucciato in un saio scuro, rapito probabilmente da una sensazione, un’intuizione, che si riflette sul volto dell’allievo che lo affianca, il quale rivolge lo sguardo direttamente allo spettatore. Luca Pacioli è stato un frate francescano e un illustre matematico al pari di Piero della Francesca, del quale fu allievo, e di Leonardo da Vinci, con il quale vi fu una intensa collaborazione dal 1496 al 1499. Il giovane allievo alla sua sinistra, secondo alcuni, sarebbe l’illustratore neoplatonico tedesco Albrecht Dϋrer, secondo altri Guidobaldo da Montefeltro. Per l’atmosfera misteriosa che si respira dal dipinto, l’opera ha assunto un valore iniziatico per i cultori delle scienze matematiche, rimanendo per secoli oggetto di osservazione esclusiva e di punti interrogativi irrisolti. Ciò che risulta significativa è la perfetta simmetria tra tre figure: il monaco, il giovane assistente e il poliedro che emergono da un fondo scuro, illuminati in maniera diversa, che per effetto ottico appaiono in movimento. In particolare, nell’osservare il poliedro si avverte un inspiegabile senso di smarrimento, quasi a suggestionare l’inconscio umano per la perfetta strutturazione delle parti e dell’intero: simmetria, perfezione, proporzione. Li troviamo in natura sotto forma di minerali, fusione della molteplicità nell’unità, rappresentata simbolicamente dai quattro elementi (acqua, fuoco, terra e aria) che si combinano nell’universo. Il libro chiuso che il maestro tiene sul tavolo, con la scritta Li[ber] R[egularum] Luc[ae] Bur[gensis], si identifica nella Summa de aritmetica geometria pubblicata a Venezia nel 1494. E poi un volume aperto, una copia della prima edizione degli Elementi di Euclide, pubblicata a Venezia nel 1482, l’unica edizione a stampa disponibile all’epoca. La lavagnetta, sul cui bordo è scritto EUCLIDES, mentre sull’ardesia sono tracciati una figura geometrica, dei segmenti e dei numeri, e il gesso e il cancellino indicano che siamo nel bel mezzo di una lezione. Per ciò che riguarda l’attribuzione del quadro, questa è stata spesso messa in discussione. La critica ha dubitato dell’assegnazione al veneziano Jacopo de’ Barbari, suggerita dalla scritta sul cartiglio “IACO.BAR.VIGEN/NIS P. 1495”. Paradossale è il fatto che l’opera compaia per la prima volta solo nel 1631 a Urbino, nella descrizione di un inventario, ma assurga alle cronache ai primi del Novecento, nel tentativo di esportazione del quadro verso il British Museum di Londra, scoperto e bloccato nel porto di Napoli nel 1903.